Introduzione

Il laboratorio che si è svolto giorno 23 febbraio 2016 ha visto l’aula interrogarsi sul ruolo e sull’importanza che le competenze relazionali -cioè le competenze del professionista negoziatore- hanno nel lavoro del professionista. Per “competenze relazionali” intendiamo riferirci a quell’insieme di capacità, attitudini e comportamenti che sono orientati a stabilire nei confronti del nostro interlocutore (sia esso il proprio cliente o una controparte) una relazione costruttiva e orientata al reciproco soddisfacimento. Competenze del genere sono solitamente ricondotte alla comunicazione, all’ascolto, all’assertività o all’empatia. Quali di queste ha a disposizione l’avvocato? E quando deve utilizzarle? Ma, soprattutto, trovandosi a lavorare all’interno di procedure formalizzate dove clienti intrisi di una cultura orientata al confitto e all’approccio avversariale esigono la testa della controparte, quanto ha senso utilizzarli?

Questa riflessione nasce dal tema affrontato nell’incontro, che inizia con il racconto di due colleghi che hanno portato al gruppo di lavoro due storie distinte. In questo report, viene raccontata una delle due storie, dove emergono le criticità riscontrate dall’avvocato alle prese con le nuove competenze.

Di seguito il racconto.

Circa un anno fa un collega (che non tratta diritto di famiglia) mi chiede se potevo occuparmi della separazione di una sua amica, architetto, dal marito, anch’egli architetto, spiegandomi che era una vicenda delicata.
Ricevo quindi questa persona, la signora Fabiana, molto provata, che mi spiega la situazione:
È sposata da 12 anni con Giorgio, con cui lavora nel loro studio di architettura, e hanno avuto due figli, Andrea e Federica.
Le cose tra i due vanno bene finché il figlio Andrea inizia a manifestare una grave malattia progressiva neurodegenerativa che stravolge la vita dell’intera famiglia.
In particolare il progressivo aggravamento di tale malattia, rende il bambino, seppur lucido e cosciente, non più autosufficiente dal punto di vista della mobilità, e quindi bisognevole di continua cura ed assistenza, giorno e notte. Ciò mette la madre Fabiana nelle condizioni di lasciare momentaneamente la professione per dedicarsi anima e corpo al figlio.
Data la gravità e progressività della malattia del bambino, lo stesso qualche anno dopo la nascita muore.
Durante la vita del bambino, Fabiana viene a conoscenza di un tradimento del marito con
una collega che collaborava assiduamente con il loro studio di architettura.
Questa scoperta getta Fabiana nella più acuta sofferenza, in quanto, oltre alla perdita del figlio, si sente tradita proprio dalla persona che ama e che ritiene assolutamente affidabile, anche per il particolare vissuto dato dalla malattia del loro figlio.
Piena di sofferenza e di rabbia, Fabiana si reca dal collega chiedendo di volersi separare dal marito, facendogliela pagare, dettando condizioni economiche proibitive.
Il collega le spiega che avrebbe inviato una lettera al marito nella quale avrebbe esposto le intenzioni della moglie e gli avrebbe chiesto un incontro, e così avviene.
In quell’incontro il collega esordisce dicendo che, pur essendo il legale della moglie, non aveva preconcetti nei suoi confronti, non era lì per giudicare nessuno, non essendo il suo compito e non avendone diritto, ma voleva semplicemente capire meglio le cose per cercare se possibile la soluzione meno traumatica per la loro famiglia, già così gravemente provata dalla vita. In quell’incontro aggiunge di avere anch’egli figli piccoli e che quindi poteva, anche se solo lontanamente, immaginarsi le sofferenze patite e che stavano ancora patendo.
Questo modalità empatica permette al cliente di rilassarsi e di iniziare fiducioso il racconto della sua versione dei fatti su quanto accaduto.
Giorgio racconta che nei tre anni di malattia del figlio Andrea, pur soffrendo parimenti come un cane, si era sentito annullato come marito, messo completamente da parte in favore del figlio; non che non capisse razionalmente la situazione, ma emotivamente si era sentito completamente solo ed abbandonato.
Questo aveva fatto sì che si fosse avvicinato alla collega di studio, che gli dava quel mimino di attenzioni che non aveva più dalla moglie e soprattutto lo considerava e gli stava vicino. Il racconto prosegue mettendo in luce che anche dopo la morte del figlio l’atteggiamento della moglie nei suoi confronti non era cambiato, in quanto la stessa era depressa e prostrata per tale accadimento ed anche restia ai suoi approcci ed al suo tentativo di starle vicino.
Giorgio prosegue raccontando che la storia con la collega era finita da anni, che amava sua moglie e che non voleva separarsi e, al limite, chiede di tentare di procedere con una consensuale per ridurre al minimo le sofferenze della figlia Federica, che ovviamente aveva già risentito della tragica vicenda del fratello.
Giorgio era, a parere del collega, convinto che la moglie lo amasse ancora e questa presa di posizione era più un fatto di orgoglio ferito e di sofferenza che di volontà profonda, e che sarebbe per questo stato disponibile a riconoscere i propri errori nell’augurio che Fabiana comprendesse che era stata una debolezza determinata dalle particolari circostanze in cui si erano trovati.
All’esito di questo colloquio il collega parla con la sua cliente Federica e da qui, dopo una serie di colloqui con i coniugi, dove aveva ottenuto il mandato da entrambi per assisterli in una separazione consensuale, concordano di depositare una separazione consensuale a condizioni eque.
Dopo il deposito della separazione il collega, che sentiva che il legame tra i due era vero e profondo e, quindi, a fronte delle rispettive posizioni formali, c’era il bisogno di stare insieme e superare le difficoltà passate, spiega loro che, se l’avessero voluto, avrebbero potuto riconciliarsi in ogni momento, anche all’udienza.
Il giorno dell’udienza presidenziale, il presidente, che conosceva personalmente uno dei due coniugi, esperisce un vero e proprio tentativo di conciliazione, il quale ha buon fine.
In quella occasione, Federica chiede che nel verbale di conciliazione venga messo per iscritto che il marito Giorgio aveva avuto una relazione, che chiedeva perdono alla moglie, e che l’amava ancora. A fronte di ciò Federica accetta la riconciliazione e la causa viene estinta.
Dopo l’udienza si recano a pranzo insieme tutti insieme (anche con il collega loro avvocato) e la cosa sembra finita lì.
Alla fine del pranzo però Federica torna in studio dal collega e gli accenna al fatto che nutre ancora del risentimento nei confronti del marito e soprattutto dell’amante, la quale aveva parimenti tradito la sua fiducia, essendo la storia iniziata in virtù del rapporto di collaborazione professionale, ragione per cui vuole procedere a farle una denuncia o un esposto all’ordine, utilizzando anche il verbale di conciliazione di natura confessoria quanto al tradimento del marito.
Il collega le spiega che sarebbe meglio finirla lì, anche perché i conflitti sono un ottimo collante tra le persone, e questa sua iniziativa avrebbe consentito alla collega di sentirsi ancora con il marito e fare la vittima, e avrebbe dato la possibilità al marito di lamentarsi dicendo che in realtà la moglie voleva una resa incondizionata e non una riconciliazione per continuare ad attaccarlo, utilizzando contro di lui le dichiarazioni finalizzate proprio ad una riconciliazione. Federica risponde di aver capito e che non avrebbe fatto nulla e così lascia lo studio del collega.
Dopo circa un mese il collega riceve una telefonata da Giorgio, il quale gli dice che l’ordine degli architetti l’aveva chiamato a seguito di un esposto fatto nei confronti di una sua collega e gli chiedeva informazioni essendo anche lui coinvolto nella vicenda. Giorgio era molto arrabbiato e deluso per il fatto che la vicenda non fosse finita e che la moglie aveva anche utilizzato quel verbale di conciliazione per provare l’adulterio; diceva che a quel punto voleva lui la separazione e che gli era nuovamente crollato il mondo addosso.
A quel punto il collega chiama Federica chiedendo spiegazioni. La stessa gli risponde di non aver resistito a farlo perché doveva farla pagare a quella persona. A quel punto il collega la vede e le spiega che aveva seri dubbi sulla sua effettiva intenzione di riconciliarsi e che era rimasto parecchio male per l’accaduto essendosi speso professionalmente ed emotivamente per loro per ottenere poi un risultato simile.
Le chiede pertanto di ritirare l’esposto e finirla lì.
Federica risponde che lo avrebbe fatto solo a condizione che l’amante avesse restituito i regali fatti negli anni passati da entrambi, quale gesto di scusa.
Il collega risente Giorgio, il quale a sua volta chiama lo studio dove lavorava l’amante per riferirle quanto richiesto dalla moglie.
I regali vengono restituiti e l’esposto viene ritirato.
La questione portata dal collega ai partecipanti del laboratorio è: come si sarebbero comportati i colleghi presenti al laboratorio che trattano questioni di diritto di famiglia in un caso di questo tipo? Quali comportamenti adottare in questi casi? La scelta di creare una relazione costruttiva con la controparte, andando oltre la procedura giudiziaria, è stata una scelta lungimirante e utile?
L’avvocato negoziatore può avere ben chiare quali finalità persegue il metodo integrativo e il loro valore, ma non è detto che esse vengano capite dal cliente o dai colleghi: il rischio, come nella vicenda in questione, è che le strategie adottate gli si ritorcano contro.
Dunque, che fare?
Ne è nato un dibattito che si è allargato velocemente a considerazioni di ordine più generale, in cui i partecipanti hanno riportato la propria esperienza e alcune riflessioni. Una delle osservazioni è stata che bisogna comunque mantenere un certo distacco dai problemi del cliente. Ma, si può obiettare, il giurista e il diritto non sempre sono in grado di risolvere problemi, soprattutto quando si tratta di questioni attinenti il diritto familiare – il diritto spesso, infatti, non riesce a cogliere le istanze delle singole persone con i loro bisogni e problemi specifici. Forse è necessario allora farsi carico di questa mancanza per attivare nei propri clienti quell’atteggiamento costruttivo nei confronti del conflitto e della controparte.

Il tema dell’empatia è dunque centrale: nella relazione con il proprio cliente occorre mantenere un certo distacco o optare per l’empatia nei suoi confronti? Il problema si pone come un aut-aut tra il ruolo del professionista (“il problema è vostro/suo”) e il coinvolgimento della propria persona (“devo difendere il mio cliente”). Per alcuni il passaggio tra i due atteggiamenti si compie quando realizzano di voler a tutti i costi vincere la causa, quando cioè proiettano i propri interessi su quelli del cliente, quando riparare all’ingiustizia inflittagli diventa un problema che li riguarda in prima persona.

Cogliere i limiti di questi due atteggiamenti, talvolta contrapposti e inconciliabili, è la chiave per comprendere quali competenze occorre sviluppare o mancano nel curriculum del professionista negoziatore.
Quale ruolo egli (o ella!) deve rivestire nel presidiare lo sviluppo di un percorso di “autodeterminazione” delle parti? Oppure, come lavorare con la rabbia del cliente; occorre assecondarla o indirizzarla su aspetti più costruttivi malgrado la volontà di rifarsi a tutti i costi sulla controparte? Senza considerare che la riconciliazione comporta spesso un’interruzione della procedura giudiziaria e può avere una ricaduta economica: un cliente che non ha cause è in fin dei conti un cliente che non rende. D’altro canto il valore di un cliente soddisfatto non è quantificabile mentre difficilmente le risoluzioni del giudice lasciano il cliente soddisfatto.
Come si può facilmente constatare il laboratorio ha prodotto più domande che soluzioni. Se il metissage tra componente “tecnica” e “umana” del professionista è possibile, occorre comprendere il ruolo e il potenziale del coinvolgimento della “persona” nel suo lavoro – problema affatto scontato, soprattutto quando entrano in gioco questioni di natura deontologica. Occorre pertanto riflettere accuratamente sul ruolo delle competenze trasversali (relazionali, emotive, motivazionali ecc.) per comprendere quali di queste, e in che modo, possono interessare il professionista negoziatore.

Nel caso portato in aula la competenza su cui ci si è interrogati è la competenza emotiva. Come gestiamo le nostre emozioni? Quanto spazio lasciamo alla “pancia” nelle nostre decisioni? Un esempio di competenza emozionale è l’empatia.
Per capire qual è il modo migliore per rapportarsi ad un cliente è però il caso di distinguere tra empatia e simpatia. Il termine simpatia deriva dal greco “sympatheia” che significa “patire insieme, condividere una particolare emozione”. La simpatia nasce quando sentimenti o emozioni provati da qualcuno “contagiano” un’altra persona, creando quasi una condivisione del sentimento stesso. L’empatia, invece, è la capacità di comprendere ciò che una persona sta provando, identificandosi nella situazione in cui essa versa. L’origine greca di tale parola ne spiega appieno il significato, poiché essa deriva dalla fusione della particella “en”, che vuol dire “dentro”, con “pathos”, che significa “sofferenza o sentimento” e perciò riesce a rappresentare in maniera perfetta l’immedesimazione di una persona all’interno di una realtà diversa dalla propria.

Insomma, mentre l’empatia è la capacità di comprendere i sentimento dell’altro, la simpatia è la capacità di provare le stesse emozioni dell’altro. Attraverso la simpatia ci lasciamo condurre dalle emozioni altrui fino ad accettare, se non ad assecondare, le azioni del nostro interlocutore – il caso, ad esempio, dell’avvocato che prende a cuore la causa del cliente. Con l’empatia abbiamo la capacità di capire la situazione e di identificarci con l’altra persona, senza però che la comprensione dell’emozione lasci che essa offuschi il nostro giudizio e la capacità di affrontare il problema.

Per concludere
Essere competenti significa sapere come agire efficacemente dato un contesto specifico, utilizzando al meglio le proprie risorse (conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche) per analizzare un problema e affrontarlo scegliendo tra le strategie a disposizione quella più efficace. Come si può facilmente intuire il termine ‘competenza’ diventa un elemento molto importante per orientare la progettazione di attività didattiche e formative. La formazione si distingue dall’addestramento proprio perché, mentre quest’ultimo mira ad insegnare come svolgere una determinata mansione, la formazione coinvolge (o quantomeno dovrebbe coinvolgere) la totalità della persona, integrando al sapere e al saper fare il saper essere, cioè la capacità di mobilitare conoscenze e capacità meta-cognitive in funzione del proprio ruolo professionale.

Le competenze infatti non esistono “realmente”, sono delle semplici etichette che hanno la funzione di denominare un insieme di capacità utilizzabili per risolvere o affrontare un dato problema ponendo come riferimento centrale dell’intervento la singola persona con le sue specifiche attitudini, motivazioni e capacità. In questo orizzonte la progettazione della didattica deve rispondere alla necessità di individuare nuovi criteri per raccordare in modo efficace formazione e professionalità, ponendo come riferimento centrale dell’intervento la singola persona con le sue specifiche attitudini, motivazioni e capacità.

La mission di Enne.Zero nasce con questo preciso intento. Il Movimento vuole orientare la formazione del professionista alle competenze negoziali non per proporre una nuova figura o una nuova funzione del professionista per sostituire la “persona” al “tecnico”, bensì per arricchire il “tecnico” con un insieme di strumenti, tecniche e capacità che possono colmare quelle lacune che le procedure non sempre sono in grado di cogliere. Soprattutto oggi, in un’epoca caratterizzata da una fortissima complessità e fluidità dei rapporti.
Non si tratta quindi di dover scegliere tra “distacco” ed “empatia” ma di integrare l’efficacia di entrambi gli approcci acquisendo contezza del loro impiego in funzione del contesto.
Certo, non è una strada facile, né tantomeno scontata, ma vale la pena provare a percorrerla.

A cura di T. Fragomeni, S. Pappalardo e P. Perrone