- Letteralmente: i presenti dispongono le sedie in cerchio di modo che ognuno possa vedere l’altro. Nessuno occupa il centro, ma si resta sulla circonferenza.
- Metaforicamente: si comincia con una domanda: “perché entriamo in conflitto?”.
Una domanda all’apparenza semplice, ma densa di significato tanto che una risposta immediata e altrettanto semplice risulta difficile anche solo da immaginare.
Il titolo del laboratorio suggerisce da subito due idee interessanti per affrontare in modo creativo e produttivo un conflitto: la prima è che un passo fondamentale per cominciare l’esplorazione di possibili soluzioni al conflitto sia l’identificazione delle reali motivazioni per cui confliggiamo. Esplorare dunque quali sono le parti sensibili di noi stessi che in certe situazioni ci fanno perdere il controllo, che ci portano a reagire in modo aggressivo e ci fanno cadere nella trappola di identificare la persona con cui siamo coinvolti nel conflitto come un “nemico”, qualcuno da sconfiggere (metaforicamente parlando). Capire per quale motivo entriamo in conflitto ha due funzioni fondamentali: da un lato, ci permette di riconoscere quando ne siamo coinvolti e di non confondere i nostri sentimenti di rabbia e il desiderio di aggressione come legittimamente imputabili a qualcuno; dall’altro, ci permette un’analisi a “mente fredda” di quelle ragioni e ci offre la possibilità di inventare soluzioni creative da spendere in quei momenti in cui il conflitto ha terreno fertile in cui crescere.
La seconda idea proposta nel titolo del laboratorio è quella che, partendo da un’auto-analisi dei veri motivi per cui entriamo in conflitto, ci si possa più facilmente accorgere che il mondo esterno è spesso, se non sempre, soltanto uno specchio di chi siamo e dunque i conflitti che incontriamo fuori sono i conflitti che abbiamo dentro, i quali generano caos, confusione, disagio e incoerenza. Se dunque il conflitto genera incoerenza, la domanda da porsi è come generare invece coerenza. Per spiegare ciò, Tiziana Fragomeni, che dirige e coordina il laboratorio, propone una metafora che può essere utile a chiarire questo concetto: quella della casa senza il padrone.
Immaginiamo l’essere umano come una casa. Nella casa ci sono diversi servi, ognuno con un proprio compito. Questi servi sono come tante voci o come tanti piccoli Io dove, in mancanza di un coordinamento e soprattutto in mancanza del padrone di casa, ognuno cerca di prendere il sopravvento sugli altri. È una casa dove la servitù fa quello che vuole. La mancanza di coordinamento fa sì che a determinati stimoli esterni non risponda mai chi di dovere. Così succede che a volte prende il sopravvento l’Io della rabbia, altre volte quello che si sente preso in giro, quello contento, quello innamorato, quello geloso ecc. Inoltre, ogni Io quando prende il sopravvento, agisce e prende decisioni in nome della totalità di tutti gli altri. Ciò che succede, in mancanza di un coordinatore e soprattutto di un unico Io (il padrone di casa) è il caos più totale. Ognuno dei diversi Io (i servi, o le voci) secondo la propria natura, ha reazioni scomposte limitandosi a re-agire ai diversi stimoli esterni. Così succede nell’essere umano.
Ci presentiamo a un esame universitario, ma invece che entrare in azione solo la parte intellettuale, si intromette anche quella emotiva, il che rende molto più difficile, se non impossibile, il superamento della prova. A un incontro galante con una bella donna, o un bell’uomo, entra in azione la parte intellettuale anziché il cuore, il che ci rende logorroici e poco attraenti. La mancanza di coordinamento tra i vari Io, o le varie voci, genera disordine e incoerenza, il che porta inevitabilmente nel conflitto. Tutto ciò avverrà fino a che l’essere umano non deciderà di fare qualcosa che possa portare dentro di sé coerenza.
Si prosegue con la metafora.
Poiché le cose nella casa vanno così male, alcuni servi decidono di eleggere un “maggiordomo”, ovvero poiché la situazione è insostenibile, in quanto l’incoerenza genera conflitto e il conflitto a sua volta genera disagio e sofferenza, i servi scelgono un coordinatore (il maggiordomo). Questi è una presenza silenziosa, che semplicemente osserva i servi nel loro lavoro per capire cosa effettivamente sta succedendo nella casa. Il solo fatto che un maggiordomo li osservi, va già a modificare il comportamento dei servi. L’osservatore modifica l’oggetto osservato. Non giudica, non parla, non interferisce in alcun modo, ma la presenza costante di questo silenzioso testimone, giorno dopo giorno, attenua il caos inducendo i servi e le pulsioni ad acquietarsi e ad rientrare nei ranghi generando armonia e preparando l’arrivo del padrone di casa.
La metafora, che conduce all’ “Uno, nessuno, centomila” di Pirandello, ovvero ci consideriamo uno, ma in noi albergano diversi Io, che, se non coordinati, generano incoerenza, è ben accolta e il concetto di dominio di coerenza sembra farsi più chiaro. Se il conflitto nasce dall’incoerenza il modo più logico per risolverlo sembra essere quello di creare coerenza. Ma come è possibile creare coerenza attraverso la figura del “maggiordomo”?.
Quello che occorre fare è fermarsi a guardare i nostri comportamenti e i meccanismi psicologici che li causano. Bisogna sforzarsi di uscire fuori dalla idea che il conflitto sia causato da qualcosa di esterno a noi, ovvero bisogna cominciare ad abbandonare il punto di vista classico secondo il quale un conflitto sia generato da due persone oggettivamente definite e in disaccordo reciproco.
Le persone esterne sono specchi di parti nostre. Di conseguenza il conflitto nasce primariamente da noi stessi, dalle nostre incoerenze, che immancabilmente proiettiamo e oggettiviamo nel nostro “avversario”.
Il primo passo per risolvere il conflitto parte dunque dal lavoro su noi stessi, da un’auto-osservazione, che ci permette di vedere affiorare le voci e così di poter vedere bisogni e paure affacciarsi alla mente e cercare di influire sulle nostre decisioni: bisogno di sicurezza, timore del cambiamento, voglia di affermarsi ecc. sono tutte voci che ci mettono in conflitto, ovvero in una situazione in cui non riusciamo a coordinare i molteplici aspetti di noi stessi. Bisogni interni ed eventi esterni ci fanno muovere senza capire bene in quale direzione ci stiamo muovendo. Ecco perché occorre diventare capaci di coordinare le voci interne, capirne la provenienza e la motivazione, cioè quale bisogno, istinto o paura sta parlando e perché.
L’auto-osservazione, se condotta in maniera assidua, porta allo scoperto i nostri schemi mentali, le nostre convinzioni, i nostri meccanismi di re-azione all’ambiente, in una parola i nostri Io. Ecco che allora può cominciare a svilupparsi la figura del maggiordomo, ed ecco perché egli è come un testimone che semplicemente osserva senza giudizio. Quando infatti giudichiamo è perché non stiamo guardando con il testimone ma con uno degli Io, cioè con una parte della nostra personalità, la quale ci impedisce di avere il dominio sui servi, ovvero di sviluppare la volontà che corrisponde al nostro padrone di casa, ovvero colui che decide veramente cosa vuole che accada in casa sua.
Per iniziare questo lavoro, partendo dal riconoscere le nostre incoerenze, ovvero ciò che in noi produce disarmonia, bisogna superare il codice binario e quindi rimanere al di sopra delle divisioni tra bene e male, giusto e sbagliato, in tutte le questioni che ci si presentano, interiori o esteriori che siano. Gli sforzi interni per superare il dualismo sono fondamentali per formare dentro di noi un centro permanente, un centro di stabilità delle nostre forze interiori. Tale centro, centro di gravità permanente, permette di non venire assoggettati dalla moltitudine di voci che esistono dentro di noi, permette di coordinare i molteplici aspetti che ci riguardano, le voci interne. Questo centro di gravità permanente è il nostro padrone di casa.
Come chiaramente emerge, riuscire a creare questo centro di gravità permanente non è per niente facile e occorre iniziare a munirsi degli strumenti necessari per creare coerenza.
Durante l’esercitazione, la sensazione che si avverte è che la disposizione circolare dei presenti e il diretto contatto visivo influisca sull’attenzione e la serietà nello svolgersi del compito da parte di ognuno, in qualche modo è come se tutti siano i taciti “maggiordomi degli altri”. Non è un lavoro semplice per due particolari motivi: in primo luogo emerge la difficoltà nel rendere esplicito, tangibile e “osservabile” tutta una serie di moventi spesso immediati e inconsci. C’è una notevole difficoltà tra i partecipanti nel portare a galla, nel dipanare, nell’individuare i reali elementi che ci portano al conflitto.
In secondo luogo una buona dose di sincera autocritica personale è indispensabile ma non facile da raggiungere. È molto difficile riconoscere i propri limiti rischiando di minare la personale visione di noi stessi. Nonostante questi due fattori, che sono sembrati generalmente la principale fonte di difficoltà, il lavoro è piuttosto proficuo grazie anche alla disposizione spaziale dei presenti che in qualche modo crea le basi emotive di sicurezza e famigliarità alle fondamenta per una buona condivisione e un’iniziale apertura. Per certi aspetti è come essere testimoni delle fasi preliminari tipiche di una mediazione integrativa.
I moventi individuati sono molti, e ognuno dei presenti non trova arduo riconoscersi anche in ciò che viene condiviso dai colleghi, con importanti e considerevoli sfumature e differenze squisitamente personali. Sono proprio tali sfumature, rimarcate dalla frase “sì, ma non proprio così”, a far emergere un fattore veramente importante: siamo esseri complessi, e spesso riconosciamo in noi questa complessità, ma con difficoltà riusciamo a riconoscerla negli altri.
I risultati della condivisione fanno emergere due poli rilevanti, due macro aree interessanti per una trattazione/approfondimento futuro:
- L’intolleranza;
- la propria concezione del sé annessa alla considerazione personale.
Di seguito la lista completa del risultato di condivisione e le parole chiave emerse:
- Minimizzare, più precisamente non riconoscere i semi di una situazione potenzialmente conflittuale e (apparentemente) lasciar perdere, perché non si ha in quel momento tempo, voglia o gli strumenti necessari per affrontare il conflitto e poi ritrovarsi a doverlo affrontare successivamente quando lo stesso si è ingigantito.
- Permalosità.
- Perfezionismo (inteso come proiezione sull’altro del mio senso di inadeguatezza e imperfezione).
- Intolleranza a:
- Invadenza
- Superficialità
- Sarcasmo
- Ignoranza
- Stupidità
- Inefficienza
- Maleducazione
- Mancanza di trasparenza
- Vanagloria
- Supponenza
- Svalutazione
- Aggressività
- Strafottenza
- Mancanza di rispetto
- Insistenza
- Provocazione
- Arroganza
- Prepotenza
- Manipolazione
- Ansia: per incapacità di gestire il tempo/fretta/voler anticipare/impazienza.
- Testardaggine, come chiusura nei propri punti di vista.
- Impazienza.
- Paura del conflitto e del futuro.
- Svalutazione dell’importanza personale/ ferite dell’ego (mancanza di riconoscimento, accettazione).
- Mancanza di ascolto, squalifica.
- Ingiustizia.
- Discriminazione di genere.
- Competizione.
- Giudizio.
- Mancato riconoscimento dei bisogni.
- Incapacità di gestire le emozioni o gli effetti delle nostre emozioni.
- Aspettative
Come si nota dal numero delle parole chiave ogni partecipante contribuisce in maniera personale al laboratorio permettendo di creare un elenco di motivazioni personali molto ricco e vario.
Le categorie “intolleranza” e “considerazione personale” sono da considerarsi le due macro aree in cui più comunemente sorge il conflitto, e al loro interno possono rientrare molte delle altre parole chiave proposte. Ad esempio la permalosità ed il giudizio possono, senza troppe forzature, far parte della categoria “considerazione personale”. Dopo la raccolta delle parole chiave, il laboratorio si conclude con alcune riflessioni molto interessanti.
– L’importanza di considerare il conflitto come un percorso di risoluzione di problemi e non come un’arena dove prevalere sul nemico, sulla controparte. I suggerimenti riguardano fondamentalmente il frame dentro al quale inquadriamo il conflitto e le persone con le quali entriamo in esso: il problema è il problema, non l’altra persona. Questo è il primo passo da muovere per poter uscire da una logica win-lose del conflitto ed entrare in una logica win-win in cui le due parti ottengono dal confronto molto di più di quanto la parte supposta “vincente” otterrebbe da uno scontro. Se smettiamo di considerare le persone come problemi possiamo arrivare a sperimentare situazioni in cui ci arrabbiamo senza venir dominati dalla rabbia, in cui avvertiamo fastidio per una situazione e non verso una persona e ci apriamo alla possibilità di allearci con la controparte per sconfiggere il problema e tornare ad una situazione di armonia in cui il fastidio svanisce.
– La comprensione che la realtà intorno a noi non è conoscibile oggettivamente, ma dipende da come noi la guardiamo, dalle lenti che usiamo per analizzarla: è cioè una costruzione sociale. Questo implica almeno due considerazioni immediate: se la realtà non è oggettiva, non esiste una verità assoluta, di conseguenza non è possibile attribuire torto o ragione a qualcuno. Come la storia del giudice saggio insegna in modo molto intuitivo, tutte le ragioni delle persone coinvolte in un conflitto sono valide e meritevoli di considerazione, nessuno ha ragione a scapito di qualcun altro che ha torto, l’unica via è la ricerca di una soluzione al problema e non l’impegno alla scoperta di una verità da consegnare in mano a qualcuno.
– La considerazione che, se vale l’assunto dell’inesistenza di una realtà oggettiva, quando sono in un conflitto devo essere in grado di mettermi nei panni dell’altro, devo tenere conto che la stessa convinzione che mi muove, muove anche l’altra persona e che se deciderò di arroccarmi nelle mie posizioni l’unico risultato plausibile è un escalation del conflitto, con tutti i rischi ad essa connessi. Devo essere in grado di accettare il punto di vista della controparte, accettarne la validità, il che non è sinonimo di condividerne le argomentazioni o di esserne d’accordo, ma di conferire dignità al pensiero e ai sentimenti della persona con cui mi trovo in conflitto, di creare un ambiente dove nessuno e nessuna idea possano venire ridicolizzati o squalificati. L’idea di fondo è che la realtà non può essere cambiata, possiamo lavorare solo su noi stessi e sull’interpretazione che diamo degli altri e delle situazioni.
– La comprensione che i giudizi che elargiamo sulle altre persone e che vediamo elargiti su di noi, mettono in luce che chi è emotivamente coinvolto in un conflitto ha la tendenza sistematica a proiettare sull’altro le proprie frustrazioni, insicurezze e pretese. Questo implica che i giudizi che esprimiamo sugli altri sono spesso e volentieri l’espressione di giudizi che precedentemente abbiamo espresso su noi stessi. Una soluzione quindi è la sospensione del giudizio a favore di un’analisi costruttiva della situazione volta a individuare le reali ragioni che muovono l’altro e noi stessi dentro alla danza del conflitto.
– La comprensione che dietro la propria considerazione personale ci sono anche le ferite dell’EGO e la considerazione, apparentemente paradossale, che per avere importanza personale occorre perdere l’importanza personale. L’ego quindi non va eliminato ma va trasformato, rivisto. Bisogna perdere importanza personale, avere meno a cuore il riconoscimento degli altri riguardo ai nostri ruoli sociali. Se cediamo emotivamente ai tentativi degli altri di sminuirci diamo loro potere, ci rendiamo fragili, permalosi, nervosi e deboli. Siamo persone innanzitutto, con pregi e difetti e siamo sicuramente e irrimediabilmente imperfetti: allora perché perdere potere personale in nome della difesa del nostro EGO? Gli attacchi ad personam sono una tattica aggressiva di negoziazione e hanno il triste pregio di essere estremamente efficaci nel demolire e far perdere terreno sotto i piedi della persona a cui sono diretti, facendole perdere di vista quali erano le sue argomentazioni e costringendola a concentrarsi sulla difesa personale. Svincolarci sia dalla tentazione di farne ricorso che dalla tendenza a volerci “riscattare” da essi ci permette di non avere un crollo emotivo davanti all’arroganza, di dimostrarci forti davanti ai tentativi di sminuirci e di non perdere di vista il nostro valore quali persone nell’affannoso tentativo di non veder graffiato il nostro ego.
– La considerazione che spesso nel conflitto le nostre azioni non sono nient’altro che re-azioni della mente primitiva. L’esempio di situazioni di aggressività alla guida è utile per spiegare bene il concetto. Quando ci troviamo in una situazione in cui riscontriamo un comportamento incivile, come ad esempio quando siamo in autostrada e la macchina che ci sta dietro ci tallona abbagliandoci. Quando in un caso come questo rispondiamo al comportamento dell’automobilista dietro di noi frenando improvvisamente e arrabbiandoci, stiamo mettendo in atto un meccanismo di re-azione dell’amigdala, ovvero del nostro cervello primitivo che si muove soltanto quando si trova in situazioni di paura, sopravvivenza, dominio del territorio o istinto di riproduzione. Ora, l’esempio riportato non conduce di certo a una situazione dove è così importante far scattare l’istinto di sopravvivenza, o il dominio del territorio, in quanto abbiamo dietro di noi solo un automobilista che vuole passarci davanti, ma se ci comportiamo nel modo descritto, la nostra risposta rimane chiusa in un binomio del tipo flight or fight, fuga o attacco, legato dunque alle parti più antiche e primitive della nostra mente che ci porta a pensare di essere in una situazione di pericolo dove occorre o accettare la “sfida”, e di conseguenza agire come se fossimo attaccati da una bestia feroce, oppure lasciar perdere e lasciarci superare, cosa che però frustra e genera a sua volta incoerenza. Pensiamo poi come comportamenti di questo tipo in autostrada siano irresponsabili e pericolosi, al punto da provocare anche incidenti mortali. È dunque necessario riconoscere questi meccanismi di automatismo e uscire dal codice binario, permettendo così di usare non l’amigdala ma la corteccia cerebrale, che permette di effettuare una elaborazione superiore delle informazioni, superando così la mente primitiva, e rendendo possibile differenti e più consoni comportamenti.
Infine si è stabilito come continuare il lavoro negli incontri successivi: visto che le macro aree più interessanti riscontrate sono state quelle relative all’intolleranza e all’importanza personale, si è deciso che nel prossimo laboratorio i partecipanti si divideranno in gruppi di discussione più piccoli e agili con lo scopo di trovare soluzioni alternative alla fuga o all’attacco a partire dalla tematica dell’intolleranza.
A cura di T. Fragomeni, C. Benedetti, A. Lela, A. Maietti