Quello che vedi lo puoi modificare, quello che non vedi lo subisci
I PARTE – INTRODUZIONE AL LABORATORIO
Partendo dall’esergo sopra riportato, il laboratorio si è aperto con una riflessione sull’invisibile del conflitto, ovvero su come la parte non visibile, costituita dalla mente inconscia, rappresenti la parte maggioritaria rispetto a quella conscia e come, se non sono in grado di riconoscere i meccanismi che animano la mia parte invisibile finirò dominato dagli stessi, i quali diventeranno la sceneggiatura della mia vita dove io giocherò soltanto la parte della comparsa anziché quella del “regista del mio film”.
Attraverso il riconoscimento della potenza di questa metafora, il laboratorio ha proceduto con la messa in luce del funzionamento di questi schemi invisibili e del loro funzionamento nel conflitto. Si tratta di andare a recuperare storie di conflitti accaduti nel passato, quando eravamo molto giovani, o meglio bambini, per vedere se è possibile, oggi che siamo diventati adulti, riconoscere come determinati messaggi hanno strutturato delle convinzioni, come queste si sono trasformate in schemi comportamentali e sono così diventati dei copioni che, senza accorgerci, mettiamo in atto nei nostri attuali conflitti.
Il punto di partenza nasce dalla considerazione che la maggior parte delle esperienze che facciamo quando veniamo al mondo provengono dalle figure per noi più significative, quali i nostri genitori, insegnanti, maestri, ecc., che hanno, spesso senza rendersene conto, esercitato una notevole influenza sui nostri pensieri, emozioni, comportamenti.
Nel vivere queste determinate esperienze, abbiamo interiorizzato alcuni messaggi, che possiamo definire come informazioni su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, su cosa fare e cosa non fare e alcune definizioni di noi, degli altri e del mondo.
Questi messaggi sono poi diventati degli script comportamentali acquisiti, interiorizzati e consolidati nel tempo che caratterizzano oggi il nostro modo di vivere nel mondo e il modo con cui ci relazioniamo con gli altri. Sono inoltre determinanti nel definire i modi con cui affrontiamo un problema, perché rappresentano quel bagaglio di azioni e reazioni già codificato e pronto all’uso a cui spesso ricorriamo senza doverci nemmeno riflettere sopra. Per questa ragione hanno un ruolo particolarmente importante nel determinare il nostro stile conflittuale.
Per comprendere meglio, mettiamo in evidenza alcuni messaggi verbali che possiamo aver ricevuto nell’infanzia e che determinano oggi come affrontiamo i conflitti: “non litigate”, “i bravi bambini non litigano”, sei cattivo perché sei un attaccabrighe”, “se tuo padre ti vede litigare, non ti vuole più bene”, “nella vita devi farti valere e quindi se qualcuno ti attacca, contrattacca più forte”, “chi pecora si fa, lupo se la mangia”, e così via.
Alcuni di questi messaggi li utilizziamo in modo positivo e ci aiutano a comportarci in modo adeguato, ad esempio, se siamo a cena e stiamo discutendo con qualcuno su argomenti sui quali non siamo d’accordo, non ci mettiamo a urlare contro il nostro interlocutore perché sappiamo che non è educato comportarci in questo modo.
Altri messaggi però possono essere utilizzati in modo negativo. Pensiamo per esempio al farsi valere nella vita che alcuni trasformano nell’essere prevaricatori, ultra-competitivi e arroganti sul lavoro e con i colleghi, secondo l’antico adagio Mors tua, vita mea.
Quando abbiamo ricevuto questi messaggi da piccoli, non avendo le competenze per relativizzare e dare le opportune dimensioni, abbiamo pensato, soprattutto se i messaggi provenivano da fonti per noi autorevoli, come i nostri genitori, che fossero veri; se il papà mi ha detto: “fatti valere”, deve essere senz’altro vero.
Nutriti da questi messaggi, abbiamo iniziato a farci un’idea di noi, degli altri e del mondo, dividendo i buoni dai cattivi, il male dal bene e così abbiamo formato delle decisioni su di noi, sugli altri e sul mondo.
Queste conclusioni assumono precise forme di pensiero, che a loro volta trovano conferma in precisi schemi di comportamento. Per esempio, se siamo convinti che se qualcuno ti attacca devi contrattaccare più forte e quindi a scuola ci azzuffiamo continuamente con i compagni e otteniamo l’approvazione da parte di nostro padre, ci significa che siamo autorizzati a comportarci così. Otteniamo cioè un rinforzo positivo a ripetere un comportamento socialmente pericoloso e moralmente inaccettabile da una figura per noi autorevole (nostro padre).
Alcuni pensieri sono continuamente rafforzati e diventano più significativi per noi rispetto ad altri. Ecco che così si trasformano e diventano per noi più veri andando a rappresentare il nostro sistema di convinzioni profonde e assolute. Profonde perché in quanto ben radicate nella nostra personalità di adulti e assolute perché, quando siamo piccoli, esse ci appaiono come le uniche verità possibili perché provengono dal mondo degli adulti che rappresenta per noi l’unico modello accettabile.
Ecco qui alcuni esempi di convinzioni: “la vita è una giungla, o sopravvivi o muori”, “solo se sei cattivo sei vincente”, “sono debole perché quando c’è un conflitto scappo”, “non puoi fidarti di nessuno”, “le donne non possono comandarmi”, “devo essere forte e cavarmela”, ecc.
Queste convinzioni non solo esprimono ciò che dichiarano ma negano anche alcuni aspetti della personalità che, secondo il mondo dei grandi, non vanno bene. Per esempio, “devo essere forte e cavarmela” nasconde “non posso mostrare le mie debolezze e chiedere aiuto”; “la vita è una giungla” nasconde “il mondo è pericoloso e quindi non è possibile vivere in pace con gli altri”; “sono debole perché quando c’è un conflitto scappo” nasconde “sono inadeguato, non vado bene”.
Le convinzioni si radicano in noi quando siamo piccoli (intorno ai sei anni), le ritocchiamo un po’ fino a circa ai dodici anni e poi le confermiamo nell’adolescenza e nell’età adulta.
Esse, insieme ai comportamenti, costituiscono la sceneggiatura della nostra vita, ovvero il modo nel quale pensiamo, agiamo, e adattiamo ciò che ci accade alle nostre verità interne. Da una parte mettiamo i buoni, dall’altra i cattivi; chi ci vuole bene e chi ci vuole male, chi ci può salvare e chi occorre temere, le persone di cui possiamo fidarci e quelle da temere, i persecutori, le vittime e i salvatori; i comportamenti che è giusto agire e quelli non corretti. Queste convinzioni rappresentano per noi la migliore strategia possibile per sopravvivere nel mondo.
Le sceneggiature rappresentano così degli script comportamentali acquisiti, interiorizzati e consolidati nel tempo che caratterizzano il nostro modo di vivere nel mondo e il modo con cui ci relazioniamo con gli altri. Sono inoltre determinanti nel definire i modi con cui affrontiamo un problema, perché rappresentano quel bagaglio di azioni e reazioni già codificato e pronto all’uso a cui spesso ricorriamo senza doverci nemmeno riflettere sopra. Per questa ragione hanno un ruolo particolarmente importante nel determinare nostro stile conflittuale.
La frequenza con cui ricorriamo a copioni e schemi comportamentali durante le nostre giornate è evidente soprattutto nelle relazioni che intratteniamo quotidianamente con le altre persone. Prendiamo per esempio il maleducato che ci urta in metro senza chiedere scusa, la signora che ci supera alla fila per la cassa, la cena di Natale a casa dei parenti. In tutti questi casi adottiamo atteggiamenti, comportamenti e modi di fare che ci fanno calare nella parte dell’amico, del famigliare, della persona offesa. Agiamo, talvolta d’impulso, secondo schemi pregressi, costruiti nel tempo e acquisiti nell’infanzia, un po’ come gli attori che seguono un canovaccio.
Anche nei conflitti ci comportiamo come degli attori che mettono in atto un copione: a seconda di come mi rapporto al torto o al conflitto, a volte sono come Amleto in cerca di vendetta, talvolta come Antigone in cerca di giustizia o, perché no, lo sfortunato Paperino combina guai. Tutto dipende dal repertorio di schemi e di comportamenti che ho appreso nella mia vita. E più questi schemi sono rigidi e radicati, più ci è difficile farne a meno.
Forse allora, proprio perché ci comportiamo come fanno gli attori, sembra più corretto affermare che siamo noi ad essere agiti dal copione.
È il caso dei cosiddetti “pensieri autolimitanti”: ciò che abbiamo imparato essere il comportamento “giusto” inevitabilmente impatta sula nostra flessibilità nell’affrontare i problemi e condiziona il nostro modo relazionarci con gli altri.
Le neuroscienze ci offrono molte conferme a riguardo: sappiamo infatti che in risposta agli stimoli dell’ambiente il cervello attiva una serie di circuiti neuronali, dando luogo a un insieme di pattern di eccitazione anatomicamente e cronologicamente correlati che vengono registrati, immagazzinati e successivamente “richiamati” ogni qual volta ci si presentano situazioni analoghe a quelle già sperimentate.
La nostra identità, costituita da schemi comportamentali acquisiti e messi in scena a seconda della narrazione che adottiamo per noi stessi, influisce significativamente sulle nostre scelte e sui nostri comportamenti. E la nostra libertà si innesta tra gli interstizi di questi schemi.
Ciò pone un problema simile alla questione riguardo l’esistenza del destino o del determinismo: se ciascuno di noi è condizionato a seconda di quanto è definita rigidamente la sua identità, la sua storia, quanto possiamo definirci liberi o responsabili?
Non sempre infatti i nostri schemi sono adatti per affrontare la realtà o gli incontri che irrompono nelle nostre vite. Quando questo accade possiamo scegliere: o rifiutare la nostra percezione della realtà pur di non mettere in discussione la nostra storia, o, viceversa, essere permeabili a ciò che viviamo e permettere alla vita di influenzare il nostro copione. Tutto dipende da quanto sono rigidi gli schemi che ci siamo costruiti a partire dall’infanzia e da quanto troviamo tollerabile il cambiamento. Se però non conosciamo la storia che siamo, se non ne siamo consapevoli, sarà difficile accorgersi delle alternative che abbiamo a disposizione e della nostra possibilità di intervenire per cambiare il nostro “destino”.
Questo è ancora più chiaro quando ci troviamo in una dinamica conflittuale, dove è difficile emanciparci da quegli atteggiamenti aggressivi, rigidi e avversariali, che spesso agiamo inconsapevolmente. Nei confronti delle persone che ci fanno del male (siano sconosciuti, colleghi di lavoro, amici) spesso ricorriamo a canovacci che ci portano a reagire in modo da amplificare lo scontro, innescando quel circolo vizioso di azione-reazione che trascina i litiganti nelle sabbie mobili del conflitto. In questi casi gli automatismi sono fortemente limitanti, poiché impediscono di gestire il problema-conflitto in modo funzionale e costruttivo.
Riassumendo, il tema del laboratorio odierno tratta di una delle teorie, tra le più accreditate, utilizzate per spiegare le origini degli atteggiamenti comportamentali negli individui: secondo tale dinamica un comportamento ha radici in un messaggio/pensiero originario, tale messaggio originario solidifica in una convinzione, la convinzione struttura un comportamento e, per ultimo, il comportamento diventa una ruotine socio-relazionale.
Il riferimento a tale teoria nasce dall’assunzione di base che ogni individuo si interfaccia con i propri alter tramite script comportamentali strutturati che possiamo definire copioni. In una dinamica conflittuale, la reazione alla presunta aggressione spesso è guidata dall’applicazione inconsapevole di questi canovacci comportamentali che in sé contengono, da come la dinamica lascia intuire, non solo la reazione comportamentale ma anche i moventi interni intrinsecamente collegati alla risposta esterna.
Per introdurre e chiarire l’argomento del giorno Tiziana porta all’aula l’aneddoto di un manager (Mario) che racconta di quando era bambino. Ai tempi della scuola elementare il giovane Mario veniva accompagnato a scuola e riportato a casa dal papà di un amico anziché da sua madre. Un giorno Mario non trova il suo compagno di scuola al luogo di ritrovo stabilito e credendo di essere in anticipo lo aspetta. Il tempo passa e nessuno si presenta; Mario, preso dallo sconforto, comincia a piangere. Nel frattempo una volante dei carabinieri, che passava nei dintorni, nota il bambino in lacrime e si ferma per prestare soccorso; spiegata la situazione i due gendarmi accompagnano Mario a casa. La madre è stupita, non tanto del ritardo (a detta del racconto di Mario), quanto del fatto che suo figlio venga a casa accompagnato da una volante dei carabinieri.
Divenuto adulto, Mario, oggi manager, confessa di essersi sentito abbandonato.
Tale trauma infantile caratterizza la chiave di lettura di un episodio, avvenuto nella storia lavorativa attuale del professionista, il quale racconta di suo un collega che, arrivato in ritardo ad un incontro di lavoro, viene da lui aggredito verbalmente accusandolo di essere un tipo inaffidabile.
La reazione sproporzionata è molto probabilmente dovuta al recupero emotivo di quella brutta avventura accaduta a Mario quando era bambino.
Vediamo questa storia, nei suoi passaggi più significativi, come entra a far parte della sceneggiatura di Mario.
Il piccolo Mario vive una storia di abbandono che lo porta a formulare il pensiero/messaggio che se non era stato portato a casa dal padre dell’amico significava che non poteva più fidarsi del mondo degli adulti.
Il bambino che siamo stati decide ragionando dal particolare al generale: se una cosa è successa una volta, allora significa che essa è una regola. Questa è una caratteristica della nostra sceneggiatura.
Quando Mario, divenuto adulto, vive l’episodio del ritardo del suo collaboratore che aggredisce verbalmente, accusandolo di essere una persona inaffidabile, egli mette in atto, senza rendersene conto, un comportamento sproporzionato, che conduce al deterioramento della loro relazione.
Tale episodio nella vita di Mario adulto fa riaffiorare la convinzione radicatasi quando era bambino per cui non ci si può fidare degli adulti.
Ecco un’altra caratteristica della sceneggiatura che l’episodio narrato da Mario adulto descrive: quando viviamo una situazione che per noi è fonte di stress e che possiede una certa rassomiglianza con una situazione del passato, tendiamo ad agire nel presente riproponendo alcuni comportamenti che erano adeguati nel passato, ma non lo sono nella situazione presente. Viviamo così, a livello comportamentale, il presente come se fosse il passato. Mario adulto affronta il suo collaboratore, senza rendersene conto, come quando si era trovato bambino da solo senza che nessuno fosse venuto a prenderlo.
Come testimonia il caso riportato, ognuno di noi spesso mette in atto comportamenti anomali o sproporzionati che, in ambito inter-relazionale, possono dare adito a conflitto o inasprirlo ulteriormente. A causa dei propri schemi comportamentali, ognuno di noi può mettere in atto dei comportamenti che, come potenziali micce, possono far conflagrare un fraintendimento, un timore, un mancato riconoscimento, in un vero e proprio conflitto. Il manager in questione aveva a disposizione tanti altri modi per comunicare il suo fastidio al collega, ma non l’ha fatto proprio perché agito da un comportamento autolimitante.
Come si può ben vedere, riuscire a gestire l’automatismo di questi script è una competenza molto importante, soprattutto quando il conflitto rischia di compromettere relazioni significative. Bisogna imparare a gestire questi comportamenti “malgrado noi stessi”, cercando un interstizio tra gli automatismi agiti nella dinamica conflittuale per recuperare la propria responsabilità e acquisire comportamenti adeguati. Perché ciò sia possibile è necessario prendere consapevolezza del ruolo che hanno i nostri comportamenti autolimitanti nel generare il circolo vizioso, grazie ad un lavoro di auto-osservazione che sveli quei meccanismi impliciti che attiviamo inconsapevolmente.
L’obiettivo quindi è riuscire a individuare quella parte della sceneggiatura che ci impedisce di affrontare le situazioni che viviamo da adulti, senza far affiorare schemi di comportamento antichi e non adeguati al contesto nel quale agiscono: “quello che vedi lo puoi modificare, quello che non vedi lo subisci”.
II PARTE LABORATORIO
Il lavoro di analisi comincia con un esercizio composto di due momenti:
- Trovare un conflitto vissuto nell’infanzia e ricostruirlo secondo i seguenti punti:
• Cosa è successo?
• Con chi era il conflitto?
• Che cosa hai provato?
• Che cosa hai pensato?
• Che cosa hai detto?
• Che cosa hai fatto?
• Cosa avresti voluto dire o fare - Capire se da questo conflitto sono scaturiti messaggi/pensieri, che sono diventati convinzioni e poi schemi comportamentali.
Discussione comune del compito:
Per scegliere le storie di conflitto su cui lavorare, ognuno dà un titolo al proprio conflitto e poi, attraverso un sistema decisionale affidato ai partecipanti al laboratorio, vengono scelte le storie che hanno, secondo il gruppo, più risonanza empatica. Di seguito i titoli emersi:
• Conferme
• Incompresa
• Ingiustizia
• Affermazione
• Giovanni ‘u scimpanzé
• Sorella minore
• Capanna distrutta
• Terza elementare
Le storie scelte sono due: “Giovanni ‘u scimpanzé” e “Ingiustizia”.
III PARTE
Partendo dai titoli delle due storie sopra indicate, di seguito si riportano i racconti dei partecipanti e l’analisi del “copione del conflitto” utilizzato in ogni storia. Segue una riflessione su come nel quotidiano questi copioni vengono attivati e prendono vita e quali sono le risorse a disposizione per contrastarli.
Analisi e metodo:
A. Il primo caso sul quale costruire il nostro iter di analisi e metodo ha per titolo “Giovanni ‘u scimpanzé” e tratta delle angherie subite dal protagonista in età scolare a causa di un bullo.
Il protagonista dell’episodio racconta nel dettaglio le proprie vicissitudini tenendo fede ai punti che Tiziana precedentemente ha chiesto di definire nel recupero del ricordo.
Il nostro scopo consiste nell’indagare se da questo fatto sia possibile rintracciare messaggi/pensieri che sono diventati convinzioni, schemi e routine.
Tiziana propone e definisce un metodo che consta di 4 steps:
1. Fase 1: Rintracciare pensieri e messaggi che emergono
2. Fase 2: Rintracciare la reazione messa in atto
3. Fase 3: Identificare la convinzione che si genera
4. Fase 4: Identificare lo schema comportamentale annesso
Applichiamo il metodo al caso di “Giovanni ‘u scimpanzé”.
Prima parte: chi, cosa, come?
Giovanni, detto ‘u scimpanzè, era il classico bullo dell’infanzia, di quando si è piccoli. Da piccolo giocavo sempre nel cortile, per strada, con i miei amici e c’era pure lui che però era di qualche anno più grande. Cosa faceva Giovanni? Mi prendeva in giro, mi derideva, mi mortificava davanti a tutti…non c’è un singolo episodio, era una situazione che capitava quando ci si trovava sotto a giocare. Anch’io poi, ero abbastanza goffo, impacciato, mi mancava una certa cattiveria nel rispondere per le rime. Tutto ciò chiaramente mi portava a sentirmi “sbagliato”, insicuro, a volermi vendicare, ma per la differenza di età (e di statura!) mi era impossibile e la cosa mi creava frustrazione, senso di impotenza. Crescendo ho però imparato a rispondere, a difendermi, cercando anche di fare a botte per pareggiare…
- Descrizione delle angherie del bullo, con identificazione delle parole chiave e stato emotivo (fase dei messaggi e pensieri strutturati sui messaggi).
• Goffo, impacciato, non abbastanza cattivo nella replica, impotente, fragilità, insicurezza.Fase di reazione al bullo (fase di re-azione, da quei messaggi sono nate reazioni).
• Reagire agli insulti fino anche a fare a botte (posizionamento simmetrico per non diventare lo sconfitto). - Quale convinzione nasce a seguito di tale vicenda? Convinzione (fase di convinzione che si struttura).
• Convinzione: vivere il torto come un vero e proprio affronto (conseguenza? Divento aggressivo). - Schema comportamentale
• Scelgo di evitare il conflitto per non scatenare comportamenti aggressivi – distruttivi. Autolimitazione (lo schema risultante è in antitesi con le premesse).
Commento
Ciò che inizialmente caratterizza la storia di S. è l’uso di parole chiave (“goffo”, “impacciato”, “fragile”) che fanno da corollario ad un messaggio ben preciso: “non ero abbastanza cattivo nel controbattere”. Il senso di disparità che emerge dal confronto con il bullo viene amplificato dal contesto corale del gruppo, con le sue logiche di potere e di riconoscimento.
Le persone che ci circondano sono come specchi, che amplificano e riflettono le nostre immagini del Sé, talvolta deformandole, rimpicciolendole o ingigantendole a seconda delle circostanze. Il messaggio dunque non è più soltanto un giudizio di insufficienza, ma una certezza, condivisa e interiorizzata da S (il narratore della storia) in quanto membro del gruppo. Messaggio che si sedimenta nella convinzione che ogni torto subito è un sopruso a cui bisogna rispondere per non essere da meno, per non perdere la faccia: se non rispondi per le rime sei un debole.
L’esigenza di avere una compensazione si traduce in una reazione simmetrica alla presunta angheria, necessaria per non essere moralmente sconfitto, tanto nel cortile sotto casa a dieci anni che nel quotidiano del presente.
Ma con un aspetto degno di nota: la reazione con cui S. tende a rispondere viene frenata perché ritenuta da egli stesso distruttiva, e non ne vale quasi mai la pena. Da qui l’autolimitazione e il de-potenziamento della propria assertività nel conflitto.
Attraverso quest’analisi l’aula è riuscita a mappare lo schema comportamentale di S., decifrandone le origini e le regole implicite della sceneggiatura messa in atto nel conflitto. Un vero e proprio copione, dove il protagonista offeso è tenuto a riparare al danno subito per tornare ad essere accettato come un pari.
Figura 1. Mappa del copione del conflitto
Seconda parte: quale schema comportamentale ho imparato ad usare nel conflitto a partire dalla vicenda narrata? Quale pensiero autolimitante?
Dopo aver individuato lo schema comportamentale, il narratore viene invitato a riflettere sulle tecniche e le scelte adottate per gestire l’automatismo. Ovvero, quali risorse abbiamo a disposizione per porre un freno al copione messo automaticamente in atto? Come emanciparsi dal nostro io immaturo e inconsapevole per acquisire responsabilità nel conflitto e diventare un soggetto attivo, in grado di imprimere un cambiamento nel circolo vizioso della dinamica conflittuale?
Riflessioni del narratore del conflitto Giovanni ‘u scimpanzé.
Premesso che più che la singola vicenda è stato sicuramente l’essere cresciuto insieme ad altri ragazzi (cioè ad gruppo in cui doversi costantemente confrontare e affermare per non risultare il più debole) ad avermi portato ad adottare questo atteggiamento, penso che queste esperienze mi abbiano portato a vedere i torti subiti (volontariamente o meno) come veri e propri affronti, a cui rispondere con violenza per compensare, pareggiare i conti e rilanciare per affermare la mia posizione nei confronti dell’altro.
- Questo però non mi porta a reagire violentemente ma ad adottare lo stile conflittuale dell’evitamento per non scatenare comportamenti aggressivo-distruttivi. Una scelta quasi paradossale, rispetto alle premesse, che inibisce l’assertività. La seconda parte del compito chiede: “Quando ci sono vicende che scatenato lo schema comportamentale rilevato cosa provi? Che soluzioni utilizzi per arginare la ruotine?”
- Allungare l’intervallo tra stimolo e risposta.
- Separare da me la parte che si sente lesa.
Terza parte: decifrato il copione si passa all’ultima parte dell’esercitazione per trovare delle soluzioni pratiche che permettono di ritagliare degli spazi di autonomia dai comportamenti automatici. Quali sono, se ci sono, le strategie e le risorse che S. ha a disposizione per trovare modi di relazionarsi alternativi e più costruttivi “malgrado se stesso”? Le soluzioni trovate sono due.
Separare l’azione dalla percezione del torto
Per contrastare gli effetti deleteri dei copioni che mettiamo in atto in un conflitto, è necessario creare degli interstizi all’interno delle nostre azioni dove poter agire autonomamente, senza nessun condizionamento interno. Occorre cioè allargare lo spazio tra lo stimolo che ci arriva dall’esterno (come ad es. un’offesa o un torto) e la risposta che diamo impulsivamente. Esistono diversi modi per ottenere questo risultato. Quello di separare le persone dai problemi è probabilmente il metodo più conosciuto.
In modo analogo, per superare l’impulso a rifarsi di un torto, occorre separare la percezione del torto dal gesto, dall’azione che scatena questa sensazione. In un certo qual senso bisogna deresponsabilizzare la controparte: non è la persona che mi offende, sono io che percepisco il suo gesto nei miei confronti come un torto.
L’esempio portato da S. è quello del capo che, mentre sta lavorando, comincia a parlargli addosso chiedendogli di fare qualcosa, ignorando il fatto che sia occupato a fare altro (magari ben più importante). D’impulso sale una sensazione di fastidio, di risentimento nei confronti del mancato riconoscimento del suo lavoro, della sua professionalità: “penso: sta forse insinuando che quello che sto facendo non sia importante? Che sto giocando?”. Urge quindi rimediare, rivendicare la propria professionalità, magari rispondendo male o con irritazione per sottolineare di essere stati interrotti e ribadire l’importanza del proprio lavoro.
Ma scelte di questo tipo si rivelano quasi mai efficaci. Innanzitutto perché il nostro importunatore probabilmente non capirebbe nemmeno il motivo del nostro fastidio (figuriamoci, non capiva nemmeno che stessimo lavorando a qualcosa di importante!). L’unico risultato raggiunto sarebbe quello di risultare persone sgradevoli e poco collaborative. Secondariamente perché significa accettare un confronto entro i termini imposti (magari inconsapevolmente) dal nostro irritante interlocutore, lasciando che sia lui a guidarci nella danza del conflitto.
Per poter gestire in modo adeguato le nostre reazioni aggressive e conflittuali il primo passo da compiere è, probabilmente, quello di prendere coscienza di una certa ingenuità che accompagna le nostre percezioni. Questa forma di ingenuità si manifesta ogni qual volta scambiamo quelle che sono le nostre impressioni per i fatti. Torniamo all’esempio del capo: forse la sua intenzione non è venire per offendere il mio lavoro, ma ha davvero bisogno di qualcosa ed è semplicemente afflitto da una mancanza cronica di educazione. Certo, ciò non lo rende meno insopportabile ai miei occhi, ma prendere in considerazione questo aspetto può aiutarmi ad adottare uno stile comunicativo più efficace, che permetta di esprimere il mio fastidio senza scadere in reazioni inutilmente aggressive.
Problematizzare le proprie percezioni può rivelarsi un utile esercizio per ritagliare, attraverso la riflessione su se stessi, una nicchia di autonomia tra la percezione del torto e la reazione impulsiva.
L’autoironia
“La serietà, caro mio, è una nota del tempo: nasce, te lo voglio confidare, dal sopravvalutare il tempo. Anch’io una volta stimavo troppo il tempo e desideravo perciò di arrivare a cent’anni. Ma nell’eternità, vedi, il tempo non esiste; l’eternità è solo un attimo, quanto basta per uno scherzo. […] Ebbene ogni superiore umorismo incomincia col non prendere sul serio la propria persona” (Hermann Hesse, Il lupo della steppa)
Di solito quanto più siamo inclini a prenderci sul serio, tanto più tendiamo a reagire in malo modo ai (presunti) affronti ricevuti. L’autoironia, intesa come capacità di non prendersi troppo sul serio, può dunque rivelarsi un espediente per smorzare il proprio ego, perché sdrammatizza i toni dell’affronto e attenua di conseguenza l’impulso a riparare al torto.
La funzione dell’autoironia è stata magistralmente descritta nel Lupo della steppa, un romanzo di Hermann Hesse, in cui viene narrata la storia di un uomo in profondo conflitto con la propria personalità: la riconciliazione delle sue parti antitetiche e contrapposte che ha dentro sé avverrà solo tramite l’umorismo, la risata cioè anche nei confronti di se stessi . Solo considerando la realtà dal punto di vista ironico il protagonista riuscirà a percorre i passi necessari per condurlo lungo la direzione della perfezione artistica.
Attraverso l’autoironia riesco a minimizzare l’offesa percepita perché mi consente di prendere le distanze da quella parte del mio io che si sente offesa, aprendo nuove prospettive sulla mia persona che ritagliano uno spazio di possibilità, all’interno del quale l’impulso all’aggressione è come ritardato, posticipato.
L’autoironia manifesta un altro aspetto positivo: lascia a chi la mette in pratica l’ultima parola. Collocando il conflitto nella dimensione del paradosso, dove ciò che viene affermato è al tempo stesso negato, permette di salvaguardare il proprio potere di autodeterminazione nei confronti della controparte: sono io che decido come etichettarmi a dispetto del giudizio altrui – e all’insegna del gioco, della dissimulazione, so bene che non è vero!. Come scrisse qualcuno, sarà una risata che vi seppellirà
3. Approfondimenti
“La nostra esperienza è letteralmente dominata dall’idea che abbiamo della vita: ci inventiamo storie sul mondo e in gran parte ne viviamo le trame. La forma della nostra vita dipende in misura notevole dal copione che consciamente, o più probabilmente inconsciamente, abbiamo scelto.” C. Pearson
Una suggestione moderna vuole che il pensiero sia essenzialmente un’attività logico-razionale, che si avvale di concetti astratti e di procedure formali per conoscere e interpretare il mondo. Esiste però un altro tipo di pensiero, quello narrativo, che è la modalità cognitiva attraverso cui strutturiamo la nostra esistenza dandole significato. Queste narrazioni rispondono al bisogno profondo degli esseri umani di strutturare il tempo, controllare il proprio spazio esistenziale e le relazioni che lo costellano.
Quando si deve far ordine nella complicata rete di relazioni sociali, dove le persone si muovono in modo imprevedibile, ricorriamo al pensiero narrativo fondato sulla costruzione di storie. Tramite esso cerchiamo di dare un’interpretazione ai fatti umani creando una storia basata sull’intenzionalità degli attori. Questo perché il modo con cui pensiamo e comprendiamo le interazioni sociali ha un’organizzazione analoga alle narrazioni (soggetto, azione, scopo, eccetera.): decifriamo ciò che osserviamo organizzandolo in copioni e in formati, ricorrendo a costrutti narrativi come i miti, le credenze o gli ideali: ogni giorno abbiamo a che fare con persone che per noi rappresentano il bene, il male, sono buone o cattive, si comportano “come da copione” o irrompono nella scena rompendo la linearità della storia.
Tutto ciò influisce in modo determinante sulla nostra identità, i cui contenuti sono costituiti dal fitto intrecciarsi di narrazioni che ci costruiamo e che continuiamo a raccontare a noi stessi e al mondo nel corso della nostra vita.
In questo processo di costruzione e ri-costruzione del nostro personaggio, ci raccontiamo al mondo, agli altri e soprattutto a noi stessi mettendo in atto vere e proprie sceneggiature delle nostre narrazioni. Esse scandiscono il ritmo e il passo del nostro incedere nel mondo e riflettendo i nostri schemi comportamentali: svelano le nostre attitudini, chi siamo e i meccanismi nascosti che guidano il nostro essere nel mondo.
La struttura narrativa del conflitto
Spesso in mediazione la narrazione del conflitto è costituita da un resoconto dove uno stato di cose regolare viene turbato da un evento che richiede una ricomposizione per ripristinare lo stato iniziale delle cose secondo un principio o una norma violata e rivendicata. Analogamente in un contenzioso le parti giungono rivendicando una storia di “come sono andate esattamente le cose”, affidandosi al giudice per confermarne la veridicità e così concludere e ricomporre lo stato delle cose secondo la legge.
I resoconti su “come sono andate le cose” rappresentano delle narrazioni che riflettono le ricostruzioni dei difensori delle parti a partire dalle quali vengono ricostruite le verità processuale con cui vengono stabiliti i giudizi; essi riflettono l’insieme di credenze riguardo ciò che avvenuto, comprese le giustificazioni e le violazioni rispetto ad una norma di riferimento. Ciò che viene adottato nel contenzioso è dunque un particolare “incorniciamento”, focalizzato sull’intenzionalità di un agente deciso a violare una legge morale o una norma; il decisore, cioè il giudice o la terza parte, ha quindi il compito di ripristinare la giustizia identificando e premiando la parte “buona”, condannando e punendo quella “cattiva”.
L’approccio integrativo della mediazione prevede invece una struttura diversa. Sebbene le parti spesso illustrino la vicenda con modalità analoghe al contenzioso, il mediatore non ha alcun potere decisionale in merito alla vicenda e dunque non ha la necessità di giudicare quale resoconto, tra le due parti, è meritevole di giustizia. L’elemento centrate è spostato su un altro aspetto, legato alla necessità di stabilire una relazione tra le parti. Il ruolo del mediatore mira a facilitare la produzione di un risultato attraverso diverse strategie che permettono di riformulare le narrazioni divergenti delle parti in un modo mutualmente accettabile e condivisibile da entrambe, mettendo al margine la causa del problema e mettendo in gioco nuove prospettive, entro cui le parti possono costruire, insieme, un nuovo punto di equilibrio non più legato al passato ma alla nuova relazione creata.
Se i fatti e la stessa realtà sono per certi versi funzione del racconto, è importante saper introdurre nuove forme di narrazione, così da costruire i presupposti per una realtà alternativa e soddisfacente. Per questo motivo quando si tratta di gestire in modo costruttivo un conflitto, il problema principale che il professionista si trova ad affrontare è la costruzione di un consenso, non tanto riguardo all’accordo finale raggiunto dalle parti quanto ad una comune comprensione della situazione.
Adam Kahane, nel suo libro Potere e amore, riporta un aneddoto che illustra come la condivisione di una prospettiva favorisca il processo di mediazione; nel 1993 il presidente nero del partito comunista sudafricano fu assassinato davanti casa da un bianco immigrato e di destra. L’assassino fu arrestato poco dopo, in parte perché uno dei vicini di casa riuscì a prendergli il numero di targa, tuttavia tutti avevano paura che quel gesto scatenasse nuove rappresaglie di sangue. Il Presidente de Klerk chiese allora a Mandela di andare alla televisione per fare un appello alla calma, e Mandela disse: “Un uomo bianco, pieno d’odio e pregiudizio, è venuto nel nostro paese e ha commesso un atto così folle che l’intera nazione si trova sull’orlo del disastro. Una donna bianca, di origini Afrikaner, ha rischiato la sua vita così che potessimo conoscere e consegnare alla giustizia questo assassino”.
Ciò che Mandela fece con queste parole fu trasformare la situazione da una potenziale contrapposizione di neri contro bianchi a “tutti i Sudafricani contro quelli che ci attaccano”, sventando una reazione all’omicidio che avrebbe potuto portare ad un escalation di violenza tra neri e bianchi. Egli riuscì ad intervenire aiutando le parti a generare uno scenario diverso, alternativo alla contrapposizione e conseguente conflittualità tra le parti. Nel fornire alla popolazione sudafricana una nuova prospettiva sulla situazione in atto, Mandela si comportò come il mediatore quando si trova ad aiutare le parti a trovare una soluzione alla disputa.
L’errore fondamentale di attribuzione
Generalmente siamo più tolleranti verso le persone che ci fanno un torto involontariamente, senza rendersene conto, che con quelle che riteniamo responsabili delle proprie azioni. È un atteggiamento profondamente radicato nella nostra cultura, che si riflette tanto nel nostro codice penale che nei confronti del vecchietto molesto che ci urta inavvertitamente. Capire quindi come imputiamo intenzionalità (e quindi responsabilità) alle persone che ci fanno del male o ci infastidiscono è un buon punto di partenza per imparare a controllare e gestire i nostri comportamenti impulsivi.
Il meccanismo con cui formuliamo giudizi e credenze nei confronti del comportamento altrui viene definito errore fondamentale di attribuzione, e da esso dipende il modo con cui giudichiamo gli altri.
Prendiamo il ritardo: di solito siamo più propensi a perdonare i nostri ritardi, trovando giustificazioni su giustificazioni, che quelli altrui. Ciò si deve al bias delle cosiddette “attribuzioni a proprio favore”, un comportamento tipico nel processo di attribuzione osservato/osservatore. Le attribuzioni a proprio favore si differenziano da quelle effettuate sugli altri per la maggior presenza di elementi contestuali, cioè avvenimenti esterni che “giustificano” la nostra condotta. Questo “indulgenza” nei propri confronti è determinata in parte dal fatto che, poiché disponiamo di maggiori informazioni sul nostro comportamento, siamo in grado di distinguere con più precisione le influenze dell’ambiente. Quando invece osserviamo un comportamento “dall’esterno” ci focalizziamo soprattutto sulla persona e sulle azioni che compie lasciando il contesto sullo fondo. Un esempio tipico è il tradimento: la persona che tradisce è piuttosto indulgente nei propri confronti (“ero ubriaco”, “mi ha colto in un momento di debolezza”) ma raramente lo è nei confronti del proprio partner.
Anche in negoziazione la sensibilità al contesto ha un ruolo importante. Misurando gli “spazi di negoziazione” delle alternative a disposizione dei negoziatori, alcuni ricercatori hanno potuto constatare come i negoziatori tendano a fare sistematici errori di attribuzione con la controparte in funzione delle rispettive MAAN: quando le controparti rifiutavano l’accordo perché disponevano di alternative rilevanti, cioè MAAN più convenienti dell’offerta del negoziatore, venivano facilmente giudicate da questo come persone volutamente non collaborative ed egoiste che si rifiutavano di trovare un accordo per mero capriccio personale . Al contrario, quando gli stessi negoziatori si trovavano condizionati dalla propria MAAN a rifiutare l’offerta della controparte, imputavano ai vincoli imposti dall’esperimento il mancato accordo.
L’esperimento illustra come l’errore fondamentale di attribuzione ci può portare a giudicare la controparte come una persona ostile e non cooperativa perché tendiamo a non prendere in considerazione il fatto che i suoi comportamenti siano determinati da fattori contestuali esterni o contingenti al negoziato.
B. Il secondo caso affrontato è intitolato: ingiustizia.
La narratrice riporta una vicenda risalente ai primi anni ’70, tempo in cui frequentava le scuole elementari. Si parla di un istituto di alto livello nel centro di Milano. La protagonista si ferma più volte nel racconto per sottolineare la caratteristica della scuola di possedere al suo interno una profonda varietà (spaccato sociale) che imponeva una difficile convivenza (sembra dalle parole dell’interessata) tra i ceti più abbienti e quelli più economicamente disagiati. Nella struttura insegnava una maestra fredda che non sopportava i bambini ritenuti poco capaci, sfogando spesso la propria frustrazione per questi ultimi anche con abusi fisici (ad un bambino sbatté la testa contro la lavagna per punire un errore). Un giorno l’insegnante schiaffeggiò la narratrice bambina. Subì il sopruso. Tornata a casa raccontò alla mamma la vicenda. La mattina dopo andarono, madre e figlia, dal preside, il quale promise che avrebbe preso provvedimenti, ma nulla si fece aldilà di un blando avvertimento. Da quel giorno la maestra appellò la bambina come “quella che non si può toccare!”.
Applichiamo il metodo:
- Fase 1: Pensieri e messaggi che emergono:
- Il pensiero: subire il sopruso messo in atto dall’autorità (che dovrebbe aiutare).
- Fase 2: reazione messa in atto:
- Rivolgersi a qualcuno che sicuramente mi avrebbe difeso.
- Fase 3: nasce una convinzione:
- Nonostante tutto, il problema non si risolve, battaglie perse.
- Fase 4: Schema comportamentale:
- Frustrazione o rassegnazione.
4. Conclusioni
Attraverso questo capitolo abbiamo visto come i “pensieri autolimitanti” rappresentino una potenziale fonte di conflitto, in quanto alimentano la dinamica conflittuale attraverso quei comportamenti distruttivi e impulsivi che attiviamo quando ci sentiamo minacciati, offesi o feriti. È molto importante saper decifrare la struttura che guida i nostri comportamenti e condiziona il nostro stile conflittuale, perché essa scandisce il nostro modo di rapportarci agli altri e getta luce sulle modalità di risoluzione dei conflitti che caratterizzano ognuno di noi. Da un punto di vista strategico, un’analisi sui propri pensieri autolimitanti ha la stessa importanza di un check-up completo dell’auto prima di partire per un lungo viaggio: è fondamentale.
Ciò è ancora più chiaro se pensiamo che la gestione integrativa dei conflitti richiede innanzitutto la possibilità di ripensare il conflitto all’interno di nuove cornici, dentro nuovi orizzonti di significato, dove è necessario che vengano meno i ruoli di vittima e carnefice, di perdente e di vincente, per andare oltre soluzioni di tipo distributivo o win-lose. Ruoli che però vengono spesso reiterati quando litighiamo, riproponendosi in quelle dinamiche di sopraffazione ed esclusione che spesso caratterizzano le nostre reazioni impulsive.
Per il professionista negoziatore riflettere sui propri schemi autolimitanti rappresenta un occasione per accrescere le proprie competenze e la propria professionalità. Gli individui che sono consapevoli dei modelli che utilizzano per affrontare i litigi e che riescono a comprendere come questi impattano sul proprio stile negoziale, hanno maggiori probabilità di riuscire a modificare il proprio comportamento in modo da affrontare i contrasti e i conflitti in modo più costruttivo e funzionale ad una risoluzione integrativa. Non basta però essere semplicemente consapevoli dei propri copioni conflittuali; per poter gestire in modo efficace la rabbia e l’impulsività occorre mobilitare delle risorse ben precise. Ecco perché la capacità di contrastare i propri pensieri autolimitati rappresenta una vera e propria competenza che il professionista negoziatore può acquisire per migliorare le proprie strategie negoziali.
Questa competenza è incentrata innanzitutto sul saper essere, in quando la capacità di gestire i propri comportamenti dipende dalla consapevolezza di sé e dei “pulsanti rossi” che, se premuti, attivano reazioni aggressive ed avversariali. Potremmo definire questa competenza come la capacità di gestire i propri script conflittuali. Essa richiede una conoscenza minima di informazioni riguardo gli automatismi comportamentali e un insieme di risorse per contrastare l’impatto di questi automatismi nelle situazioni potenzialmente conflittuali. Tale competenza può essere schematizzata nel seguente modo:
COMPETENZA Gestire i propri script conflittuali |
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SAPERE | √ CONOSCERE I MECCANISMI DEI COPIONI CONFLITTUALI √ CONOSCERE GLI STILI NEGOZIALI √ PERCEZIONE E TRAPPOLE COGNITIVE: L’ERRORE FONDAMENTALE DI ATTRIBUZIONE |
SAPER ESSERE | √ CONSAPEVOLEZZA DI SÉ Consapevolezza emotiva: riconoscimento delle proprie emozioni e dei loro effetti • Autovalutazione: conoscenza dei propri punti di forza e dei propri limiti • Saper riconoscere il proprio stile negoziale e i propri “pulsanti rossi” √ APERTURA E FLESSIBILITÀ AL CAMBIAMENTO Capacità di accogliere il cambiamento come opportunità, accettando l’incertezza e i rischi che derivano dal mettersi in discussione. • Separare le persone dai problemi: capacità di adattarsi alle situazioni in funzione del risultato • Disponibilità a vedere criticamente le proprie opinioni e le proprie decisioni, alla luce dei contributi degli altri e dei cambiamenti di contesto. |
SAPER FARE | √ MAPPARE I PENSIERI AUTOLIMITANTI Fase 1: Rintracciare pensieri e messaggi che emergono • Fase 2: Rintracciare reazione messa in atto • Fase 3: Identificare la convinzione che si genera • Fase 4: Identificare lo schema comportamentale annesso √ INDIVIDUARE LE RISORSE A DISPOSIZIONE |
A cura di T. Fragomeni, S. Pappalardo, A. Maietti.