Esiste anche un’altra antica metafora che di nuovo ha a che vedere con il carro e che serve per spiegare la dinamica interiore dell’uomo che può essere così riassunta: l’essere umano nei suoi elementi costitutivi è paragonato a un insieme formato da un carro, un cavallo, un cocchiere che guida il cavallo e un padrone del carro che vi sta seduto sopra.
IL CARRO rappresenta simbolicamente il corpo fisico;
IL CAVALLO le emozioni primitive, corrispondenti all’amigdala e al cervello limbico;
IL COCCHIERE la mente;
IL PADRONE l’essenza di ciò che siamo veramente (coscienza superiore, anima, sé superiore, ecc.)
L’insieme formato da corpo fisico, emozioni e mente costituisce ciò che spesso viene chiamato personalità, o Ego.
Il corpo fisico dipende dall’opera di manutenzione che vi presta il cocchiere, ma anche dal modo in cui è trainato dal cavallo.
Le emozioni permettono la messa in movimento , e questo attraverso il meccanismo del desiderio. Esse sono un vasto serbatoio di energia.
La mente è la sede dei processi di pensiero. Le sue funzioni sono trasmettere le informazioni che provengono dall’esterno al padrone, ascoltare gli ordini dati dal padrone al cavallo in risposta alle informazioni trasmesse, dominare il cavallo per guidarlo nella direzione indicata dal padrone del carro, prendersi cura del carro.
Ma chi è il padrone del carro fa la differenza. Se l’uomo oggi non è ancora in grado di avere padronanza sul suo insieme fa di sé un portatore di caos.
A partire dall’esistenza di conoscenze e mezzi per rendere possibile questa realizzazione, il laboratorio tenutosi il 18 maggio ha affrontato il complesso tema del rapporto tra la percezione del sé e la dinamica conflittuale utilizzando concetti derivati dalle dottrine dello yoga e dalla fisica quantistica.
Riguardo lo Yoga, è stato fatto un accenno all’antica scuola filosofica del Samkya che mette in evidenza l’esistenza dei Guna, ovvero le tre energie materiali che influenzano la vita di tutti gli esseri umani: Sattva, Rajas, Tamas, dove Sattva è la virtuosità, la saggezza, Rajas l’azione, il desiderio e Tamas l’ignoranza, l’inattività, e di quanto sia importante riconoscere come queste tre nature possano essere presenti, in maniera differente, in ognuno di noi.
Dopo di che si è tornati sulla metafora del carro al fine di mettere in evidenza l’importanza di restituire al padrone del carro, alla nostra essenza, il vero potere che gli spetta, al fine di attivare un necessario cambiamento di direzione, che comporta inevitabilmente l’integrazione nel quotidiano perché possa dirsi vero.
Certo, può sembrare poco opportuno introdurre terminologie e concetti dello yoga in un workshop dedicato alle tecniche di mediazione: come è stato, legittimamente, obiettato in aula: cosa se ne fa un avvocato di questi concetti? Cosa può avere a che fare una dottrina mistica di matrice induista, basata su un dualismo tra spirito e materia, dove gli esseri umani sono chiamati ad uscire dai Guna per iniziare un percorso di ascesi spirituale verso il “purusha” (l’assoluto spirituale) con le tematiche della mediazione e delle tecniche relazionali?
In effetti, se ci limitiamo a considerare la dottrina yoga e la sua terminologia alla lettera, difficilmente potremmo rispondere a queste obiezioni. Ma se riusciamo a sospendere per un attimo i nostri pregiudizi, andando a vedere gli elementi che accomunano le due discipline, probabilmente troveremo l’accostamento quanto mai azzeccato. L’aiuto ci arriva dalla unione del misticismo con la scienza e le ultime scoperte della fisica quantistica.
Vediamole.
Da millenni l’uomo procede, grazie ad ogni esperienza di vita, sulla strada dell’acquisizione di una consapevolezza sempre maggiore, procedendo per approssimazioni successive: un colpo al timone e uno alla barra, per trovare la via di mezzo. Meno si va avanti, più grandi sono le deviazioni, maggiore è anche la sofferenza; più ci evolviamo più rimaniamo vicini alla via di mezzo, che è la via del benessere e della beatitudine. Ciò che oggi dobbiamo ancora imparare a fare è governare le emozioni attraverso una mente saggia. Di fronte alla complessità umana è interessante osservare come si sia evoluta la coscienza collettiva durante l’ultimo secolo. Dall’inizio del XX secolo, con l’avvento della nuova e fortissima corrente di pensiero materialistica, si suppose che le attività dell’intelligenza si svolgessero nella testa, mettendo così il cavallo, ovvero le emozioni, fuori dalla porta e dando predominio all’intelletto razionale e all’aspetto maschile della coscienza. Vennero allora effettuate molte ricerche sull’intelligenza umana in numerosi ambiti scientifici: medico, biologico, neurologico ecc. , così come in campo psicologico. Questi studi, condotti nella maggior parte dei casi con un’ottica strettamente materialistica, consideravano l’essere umano come una macchina di cui occorreva smontare i meccanismi uno dopo l’altro. Quando poi si aprì l’indagine sull’aspetto emozionale dell’essere umano, riconoscendo il loro impatto sull’essere umano, ci si pose il problema di come gestirle efficacemente, se con la testa o con il cuore. Così, dopo aver glorificato l’intelligenza puramente razionale e intellettuale (il cosiddetto QI), a metà degli anni ottanta, si cominciò a parlare di intelligenza emozionale. Per procedere sulla ricerca della padronanza di questo straordinario potenziale energetico che sono le emozioni, occorre in primo luogo comprendere che il termine emozioni esprime due realtà molto diverse: rabbia e gioia, paura e amore, azionano due meccanismi ben distinti. Il problema non è quindi scegliere tra la testa e le emozioni ma piuttosto tra due modi di funzionare molto diversi, sia della testa, sia delle emozioni. Lo studio del funzionamento della coscienza, al quale è pervenuta la nostra attuale scienza, grazie alle scoperte della fisica quantistica, ci permetterà di accedere al potenziale umano consentendoci di adottare una visione ancora più chiara e concreta del problema: da dove provengono le emozioni e i pensieri? Come circolano nella coscienza? Dove si situa la vera intelligenza? Dove comincia il cammino verso la padronanza, la libertà e l’espressione piena e concreta del potenziale superiore umano?
I risultati di molte ricerche effettuate nel campo della neurologia, della neurobiologia, della neurochimica e in campi collegati, permettono di descrivere con precisione diversi circuiti fisici presenti nel cervello, corrispondenti a diversi tipi di attività della coscienza, con la premessa che non è il cervello a generare la coscienza ma il livello di coscienza dell’individuo a determinare quali parti del cervello saranno attivate. In compenso, lo studio del funzionamento fisico del cervello è rivelatore (e non generatore) di alcuni modi di funzionare della coscienza e delle loro caratteristiche concrete.
Ciò che l’essere umano percepisce attraverso i sensi viene trasmesso ad un punto del cervello chiamato talamo. In base allo stato di coscienza della persona, l’informazione percepita può prendere vie diverse, corrispondenti a parti diverse del cervello. In funzione della via seguita dall’informazione, la persona avrà una certa percezione delle cose, che provocherà una serie di reazioni fisiche, emozionali e mentali più o meno appropriate, tutt’altro che dipendenti unicamente dalla situazione oggettiva, come alla mente razionale piacerebbe pensare. In realtà tali reazioni dipenderanno soprattutto dal circuito che verrà utilizzato per trattare l’informazione.
La nostra percezione della realtà non equivale necessariamente alla realtà, ma dipende direttamente dal circuito usato dalla coscienza per percepirla.
Esistono tre possibili tipi di circuiti atti a descrivere i meccanismi della coscienza.
PRIMO CIRCUITO
Dalla notte dei tempi, quando vivevamo nelle caverne, all’uomo primitivo serviva un sistema di reazione sicuro e rapido per garantirsi la sopravvivenza. La natura quindi provvide prevedendo una scorciatoia primitiva che tutti gli esseri umani hanno ancora in sé. Seguendo questo circuito l’informazione raggiunge istantaneamente il sistema limbico del cervello e più specificatamente un punto chiamato amigdala dove verrà analizzata. Questa parte limbica è situata all’interno del cervello stesso, come un cervello nel cervello, e ha un modo molto particolare di trattare l’informazione secondo tre princìpi ben noti:
– la paura (garantire la sicurezza);
– l’istinto riproduttivo (assicurare la continuazione della specie);
– la difesa del territorio (garantire uno spazio di sopravvivenza).
I due aspetti dell’essere umano, il cocchiere e il cavallo, la corteccia e il sistema limbico sono quindi sollecitati in ogni istante della nostra vita. Chi prevarrà? Corteccia e amigdala “vedono” la situazione ciascuno a modo suo portando così l’essere umano a oscillare consciamente o inconsciamente tra due tipi di percezione e di conseguenza tra due tipi di reazione che portano a risultati molto diversi. Le memorie attive dell’amigdala generano non soltanto reazioni emozionali ma anche modi di pensare, ragion per cui si può parlare di una “mente automatica” che funziona come un computer programmato dal passato. Così nel corso dei secoli abbiamo costruito sistemi di difesa registrati in una parte della corteccia e caricati emozionalmente dall’amigdala. Questi sistemi di difesa sono abbastanza sofisticati da darci l’impressione di costituire una personalità. Ecco l’origine di ciò che chiamiamo “ego”.
Le tre P. La trasformazione degli istinti di base in istinti psicologici.
P come paura
La paura costituisce il meccanismo di base, tanto a livello psicologico tanto a livello fisico. Quella strettamente fisica si è oggi trasformata in ansia, stress e latente senso di insicurezza. Se non abbiamo più paura di essere divorati da un animale feroce, soffriamo però di una lunga serie di paure psicologiche (paura di mancare di qualcosa, di essere abbandonati, di non essere amati, di perdere il lavoro, del futuro, della solitudine, dell’ignoto, dell’insuccesso ecc. Paure che quindi riguardano non solo la sopravvivenza fisica, ma anche quella psicologica, cioè tutto quello che minaccia l’ego che abbiamo costruito sulla base delle memorie.
P come piacere
L’istinto riproduttivo si è evoluto nella ricerca sfrenata del piacere, la ricerca della gratificazione personale attraverso i sensi, in un tentativo di riempire il vuoto interiore. A questo livello la ricerca del piacere ci priva del piacere vero, quello che ci permette di godere appieno della vita.
P come potere
La difesa del territorio si è evoluta in ricerca del potere: dominio, manipolazione, competizione, egoismo, ricerca del profitto a qualunque costo, abuso di potere in ogni sua forma.
Così l’intelligenza umana, benché si sia sviluppata nel corso di una evoluzione millenaria, rimane ancor oggi, per gran parte dell’umanità, al servizio del meccanismo delle tre “P”.
Quando la corteccia diventa abbastanza forte, l’intelligenza si sviluppa e comincia a opporre resistenza di fronte alle richieste emozionali immediate, egoistiche e piene di angoscia del cervello limbico. Mentre l’amigdala si agita, l’individuo comincia ad avere una percezione più oggettiva delle situazioni e di sé e inizia a prendere un po’ le distanze da questi meccanismi automatici. Comincia allora ad essere autoconsapevole, cosciente dei propri pensieri e delle proprie emozioni. E’ a questo punto che possiamo vivere una prima lotta tra l’intelligenza e la mente emozionale primitiva.
SECONDO CIRCUITO
Nel corso dei millenni e fino ad oggi l’essere umano ha sviluppato un’altra parte del cervello chiamata “corteccia cerebrale”. E così si è costruito un secondo tipo di circuito la cui caratteristica è che l’informazione registrata dai sensi, dopo essere passata attraverso il cervello limbico, in linea di massima viene trasferita alla corteccia cerebrale, la cui funzione è assumere il controllo della situazione in base ai propri criteri percettivi. La funzione di quest’area più sviluppata è quella di analizzare più dettagliatamente, in modo più intelligente e quindi più oggettivo, ciò che avviene e, in base a tale percezione, adattare, attenuare e anche inibire completamente le reazioni primitive provenienti dalle aree limbiche, come la paura, lo stress (il cocchiere comincia a dominare il cavallo).
TERZO CIRCUITO
Si tratta di un circuito ibrido (mentale-emozionale)derivato dallo sviluppo del secondo circuito, il quale mette in evidenza che il fatto che si sia sviluppata la corteccia non impedisce all’amigdala e alle parti limbiche del cervello di smettere di funzionare. L’amigdala continua a funzionare pur adattando e ampliando le sue funzioni in base alle nuove situazioni. Essa svolge sempre il ruolo di protettrice ma questa protezione si è estesa dalla semplice sopravvivenza fisica alla sopravvivenza psicologica legata al corpo emozionale e a quello mentale che si sono sviluppati. L’amigdala ha così ampliato il suo sistema di registrazione per mettere in memoria non soltanto le situazioni di stress provocate da minacce di tipo fisico, ma anche tutti gli eventi che provocano uno stress psicologico, cioè una sofferenza mentale-emozionale. Infatti con l’evoluzione e lo sviluppo del corpo mentale-emozionale soffriamo perché ci sentiamo giudicati, respinti o abbandonati, vittime di ingiustizia, perché pensiamo di aver fallito, di non essere riconosciuti per il nostro giusto valore, o perché ci sentiamo soli, impotenti, condannati. Con lo sviluppo non solo emozionale ma anche mentale, i meccanismi dell’amigdala si sono adattati a tutti i casi in cui l’ego si sente minacciato, ciò con cui si identifica: opinioni, credenze, pensieri, emozioni, desideri, tutto ciò che gli conferisce un’illusione di identità.
Più diventiamo consapevoli, però, più ci rendiamo conto della necessità non di rimuovere le emozioni, ma di imparare a conoscerle, a fare ciò che occorre per liberarne la parte inconscia, per poterci così aprire ad altri circuiti della coscienza. Ciò è la fonte della vera padronanza.
Per far sì che ciò accada occorre assumersi la responsabilità delle proprie emozioni. La vera causa delle nostre reazioni emozionali, infatti, non è ciò che accade all’esterno, ma ciò che avviene nelle nostre dinamiche interiori. Applicato alla vita quotidiana ciò significa che qualsiasi siano i fattori esterni che sembrano essere la causa dei nostri tumulti emozionali, riteniamo che la nostra reazione ci appartenga totalmente e non dipenda in alcun modo da ciò che avviene intorno a noi o da ciò che gli altri hanno potuto dire o fare. E’ un’assunzione totale di responsabilità del nostro stato emozionale, sia esso piacevole o no. Ricordiamoci che quando biasimiamo gli altri rinunciamo al nostro potere di cambiare. Qualunque cosa facciano gli altri non ci riguarda: non siamo in grado di valutare le loro intenzioni, la loro realtà interiore, le loro sofferenze ecc. Gli altri fanno quello che possono con le memorie che si portano dietro e il grado di consapevolezza che hanno: sta a ciascuno di noi scegliere la propria reazione a ciò che la vita propone attraverso gli eventi o le persone che si presentano. Nessun altro è responsabile delle nostre reazioni emozionali: ciascuno di noi sceglie il proprio modo di reagire. Ecco perché è importante non biasimare nessuno per le nostre reazioni: ciò è già un enorme passo verso la consapevolezza.
Assumersi la completa responsabilità delle proprie emozioni, piacevoli o spiacevoli, qualsiasi siano le circostanze, è la regola d’oro che permette l’accesso alla conoscenza di sé. Quindi, chiunque riattivi le nostre emozioni diventa un nostro maestro. E’ infatti lui a mostrarci le nostre debolezze su cui occorre lavorare, le ferite da guarire, le imperfezioni e limitazioni da superare. Ogni volta che una persona riattiva in noi un’emozione negativa, invece di lasciarci travolgere dal risentimento, dalla collera o dal biasimo, adottiamo consapevolmente un atteggiamento diverso: scegliamo di ringraziarla perché ci ha offerto l’occasione di scoprire il meccanismo inferiore che si è appena innescato in noie per avercene dato di conseguenza la possibilità di liberarcene.
Una volta che ci siamo assunti la responsabilità delle nostre reazioni emozionali, la fase successiva consiste nel mettere in discussione il nostro modo di interpretare la realtà, al fine di modificare i sistemi di pensiero consci o inconsci che sono sottesi a tali reazioni; si tratta di scegliere i nostri pensieri in modo consapevole invece di pensare automaticamente. Si tratta di trattenere il cavallo, cioè di non agire in base alle nostre reazioni inferiori ma di osservarle come un’eccellente occasione per scoprire come è che veniamo catturati nella via inferiore, nel cosiddetto Tamas degli induisti.
Ciò che dunque mettono in luce la metafora del carro e le scoperte del funzionamento del nostro sistema percettivo, è l’accento posto alla capacità di dare una direzione alle nostre azioni per superare il circolo vizioso di azione-reazione della dinamica conflittuale. Il significato della metafora del carro è infatti molto importante nella gestione dei conflitti, perché la capacità di andare oltre gli elementi contingenti e conflittuali di un contenzioso per raggiungere il proprio obiettivo attraverso una soluzione integrativa, è proprio una delle competenze (o se vogliamo delle skill) appartenenti al profilo del professionista mediatore. Per riuscire ad affrontare un conflitto in modo efficace, sapendo muoversi in esso, è importante riuscire ad individuare un obiettivo, uno scopo, senza lasciarsi provocare (e quindi determinare) da quegli elementi contestuali che ci vincolano alle azioni della nostra controparte.
Partiamo da un problema tipico che riguarda chiunque si trova a negoziare in un conflitto: com’è noto ciò che spesso ci impedisce di individuare e di esprimere i nostri bisogni, così come ciò che ci proietta in una dinamica conflittuale basata sulla logica azione-reazione, è la paura: paura di mostrarci deboli, di rimanere soverchiati dalla nostra controparte, di rimetterci la faccia e via dicendo. La paura può essere un forte condizionamento, in quanto vincola le nostre azioni a ciò che temiamo possa farci del male. Condiziona le nostre strategie negoziali, perché subordina le nostre priorità e le nostre scelte ad eventi esterni che temiamo possano nuocerci, generando una gara al ribasso in cui spesso perdiamo di vista ciò che sono i nostri interessi, ciò che è meglio per noi, accettando un gioco a somma zero in cui lo scopo è limitare i danni subiti.
Due sono gli elementi interessanti che, ai fini del nostro discorso, possiamo individuare: il primo è l’idea che acquisire autocoscienza è importante per agire libero da condizionamenti, libero cioè da vincoli esterni che si impongono sulla nostra volontà obbligandoci a reagire. Il secondo che tutto questo è possibile solo emancipandoci dalle rappresentazioni che abbiamo del mondo e di noi stessi, in quanto esse sono limitanti e spesso legate ad aspetti contingenti (possedere una bella macchina, essere il più professionale dello studio, godere di una buona fama..).
I contenziosi sono dunque sfidanti perché mettono in discussione quegli aspetti della nostra persona che spesso riteniamo assolutamente non negoziabili. Questi elementi sono dei veri e propri inneschi per l’escalation conflittuale: quando vediamo minacciate le rappresentazioni di noi stessi, le pirandelliane forme che ci auto-attribuiamo, tendiamo a reagire, assumendo atteggiamenti e strategie tanto più escludenti, rigidi e avversariali quanto più l’immagine che abbiamo di noi stessi ci riguarda nel profondo e viene coinvolta nel conflitto.
Le metafore e le analogie oltre ad essere delle figure retoriche possono dunque rivelarsi potenti strumenti didattici che permettono di acquisire nuove informazioni e competenze trasferendo elementi appartenenti ad un contesto familiare in uno non familiare.
L’insegnamento che riceviamo è che la nostra percezione del mondo e di noi stessi ha un forte potere creativo e riveste un ruolo determinante nella nostra vita, perché è a partire dal modo con cui ci vediamo nel mondo che elaboriamo le nostre aspettative, le nostre scelte, i desideri e le paure. La volontà, l’assertività, la direttività ecc. possono rivelarsi attitudini molto preziose per spezzare la dinamica ricorsiva dei conflitti e porre le basi per interazioni virtuose che non contemplano la logica dell’azione-reazione. Ma per andare oltre questa dinamica occorre saper mutare la propria percezione di sé e limare quegli elementi d’attrito che ci trascinano nella logica escludente dell’aut-aut.
Decalogo
- Riconosco che la mia percezione della realtà non è necessariamente la realtà.
- Metto continuamente in discussione la mia percezione della realtà e così facendo allargo il mio filtro percettivo. Smetto di considerare le mie percezioni come se fossero espressione della verità.
- Osservo i miei pensieri, le mie emozioni, ciò che avviene nel mio corpo fisico. Sono consapevole dei meccanismi delle tre P che mi fanno rimanere nella separazione.
- Mi assumo la responsabilità delle mie emozioni, qualunque siano i fattori che sembrano averle attivate.
- Non giudico il comportamento degli altri, osservo soltanto me stesso e se le mie osservazioni generano in me delle reazioni emozionali inferiori, me ne assumo la responsabilità: sono le mie emozioni, il mio “cavallo” e sta a me dirigerle con intelligenza.
- Non biasimo né critico alcunché, sapendo che il biasimo e la critica sono veleni tanto per chi critica quanto per chi viene criticato e alimentano la separazione.
- Sono sempre cosciente che se qualcosa mi disturba negli altri è perché vi è qualcosa di irrisolto che risuona in me all’atto della percezione.
- Anziché criticare chi attiva in me emozioni sgradevoli, lo ringrazio perché mi offre l’occasione di lavorare consapevolmente su me stesso.
- Smetto di voler avere ragione e di volere dimostrare che gli altri hanno torto. Ascolto e accetto che la percezione della realtà che hanno gli altri sia diversa dalla mia.
- Smetto di opporre resistenza a ciò che la vita mi mette davanti e lo trasformo in occasioni di presa di coscienza, di azione creativa e di sviluppo delle mie qualità.
A cura di T. Fragomeni e S. Pappalardo.