A chi piace essere giudicato? Se la risposta è a nessuno, allora perché giudichiamo in continuazione tutto e tutti? Da dove nasce questo impellente bisogno del giudizio e che cosa si nasconde dietro? Il laboratorio del 17 giugno ha avuto lo scopo di rispondere a queste domande coinvolgendo i partecipanti in una esercitazione individuale il cui scopo è consistito nell’individuare i motivi, i perché, del nostro emettere giudizi.

Il lavoro effettuato è partito dalla considerazione che il giudizio rompe l’unità e rompendo l’unità genera il conflitto. Senza entrare nel merito della mediazione e dell’importanza per il mediatore di non giudicare, in quanto nel trattare i problemi delle persone non esistono torti e ragioni ma solo due storie differenti, non c’è giusto o sbagliato ma solo due modi diversi di fare la stessa cosa e il  conflitto è solo un contrasto tra diversi modi di vedere la stessa verità dove ogni confliggente ha il diritto alla propria differente posizione senza subire un giudizio, il laboratorio sul perché giudichiamo si è concentrato sui nostri personali motivi che ci portano ad esprimere giudizi e sulla considerazione che il primo aspetto sul quale occorra lavorare per comprendere il motivo per cui giudichiamo sia il potere che l’ego esercita su di noi. L’Ego, infatti, è normalmente centrato solo su di sé, difensivo, vittima soprattutto di se stesso e della realtà che si è creato, dentro cui si vede minacciato ed attaccato, ragion per cui tende a escludere l’altro, giudicarlo, disattenderlo, togliergli validità, occupando spazio solo per sé. Se l’Ego non può essere eliminato o distrutto, può invece essere usato diversamente. Come? Capovolgendolo, ovvero trasformando il suo potere ego-centrato in un potere esplorativo.

E sclude                                               O sserva

G iudica                                               G iustifica

O ccupa spazio solo per sé             E spande

Se l’Ego Esclude l’altro da sé, Giudica in continuazione e Occupa spazio solo per sé, un Ego capovolto, invece di escludere l’altro, Espande se stesso, così da contenere anche il punto di vista altrui; invece di giudicare, Giustifica, ovvero comprende quali sono le paure e i timori che fanno chiudere le persone nelle loro posizioni; invece di occupare spazio solo per sé, Osserva, acquisendo così più informazioni che possono rivelarsi importanti ai fini di comprendere meglio la persona con la quale siamo in relazione. Il capovolgimento dell’Ego permette così una possibile riconfigurazione, la quale non è nient’altro che un cambio di punto di vista che permette il passaggio dal giudizio alla comprensione.  Per esempio, invece di giudicare quella persona come aggressiva, usando il capovolgimento dell’Ego che trasforma la G di Giudizio in G di Giustifica, si può comprendere che quella persona probabilmente non riesce a comunicare diversamente i suoi bisogni, perché ha paura che se non si comporta in quel modo non sarà ascoltata, o forse perché si sente in ansia e per mascherarla si comporta aggressivamente.

A partire dalla considerazione che sia difficile, se non impossibile, eliminare i giudizi, occorre ricordarsi di non entrare nella trappola del codice binario, la quale permette al conflitto di mantenere la sua morsa restrittiva, facendo sì che i giudizi sembrino naturali e giustificati, impedisce di far spazio dentro di noi per accogliere i punti di vista differenti, rompe l’unità e, così facendo, genera il conflitto.

Se dunque non giudicare è qualcosa di estremamente difficile da mettere in atto, il problema diventa non tanto evitare i giudizi, quanto piuttosto cosa fare quando gli stessi si affacciano nella nostra mente (cosa che inevitabilmente accadrà) per evitare che impediscano o limitino la nostra capacità di gestire costruttivamente i conflitti.  I giudizi sono come uccelli che si posano sui rami del nostro albero. Non possiamo impedire loro di posarsi, ma possiamo impedire di farci il nido! Dunque, nel momento in cui i giudizi affiorano nella nostra mente, occorre accorgersene, non spaventarsi, pensando che gli stessi inficeranno le nostre relazioni, ma “parcheggiarli” in un apposito file denominato “file sospensione giudizio”.

Di seguito sono riportate le risposte che i partecipanti hanno dato alla domanda che dà il titolo al laboratorio, a cui ha fatto seguito un’altra la domanda su: “qual è il bisogno sotteso?”.

  • Per non sentirmi impreparata sulla situazione, per prendere le misure sulle persone (bisogno di controllo e sicurezza).
  • Perché mi sento sopraffatta, impotente, perché posso creare una distanza e una verticalità (bisogno: riconoscimento della mia esistenza e visibilità, dominio e controllo).
  • Me lo hanno insegnato, presunzione, perché penso di sapere degli altri, perché mi semplifica la vita (bisogno di inquadrare e di semplificazione, perché è più facile inserire le cose in una categoria).
  • Presa di distanza dall’altro, per evitare le delusioni (bisogno di protezione).
  • Perché mi sento attaccato, devo tenere la situazione sotto controllo, far valere il mio punto di vista (bisogno: riconoscimento derivante dalla paura, bisogno di sopravvivenza).
  • Necessità di delimitare il bersaglio, per delimitare l’ignoto dal noto (bisogno di controllo).
  • Per dare un’etichetta a chi ho di fronte e avere una guida per comportarmi (bisogno di coerenza e controllo).
  • Inadeguatezza alla situazione, quando sono stressata (bisogno di riconoscenza).
  • Per superficialità, presumendo che i miei valori siano migliori, non faccio la fatica nel capire la differenza (bisogno di essere compresa e capita).
  • Abitudine mentale che scatta quando non ho tempo per comprendere e analizzare, la fretta mi fa utilizzare degli schemi (bisogno di sicurezza: sono la brava bambina sempre la prima della classe).
  • Mi è stato insegnato che giudicare = dare un valore 1 o 0, prendere le misure, tutto riferito a me (bisogno di confermare l’identità).
  • Impossibile non giudicare, è impossibile vivere senza confronto sociale (confermare o dis-confermare me stesso), agire in base al giudizio sugli altri (bisogno di confermare me stesso ed essere accettato + bisogno di muovermi in conformità al giudizio dell’altro).
  • Collocare (definisco, ordino) fatti, persone e me stesso, con corrispondenza dello stesso giudizio dell’altro su di me (bisogno di controllo).
  • Sovrapporre al torto giuridico un giudizio negativo alla controparte (effetto alone) (bisogno di difesa).
  • Giudico nell’altro quello che non voglio vedere in me ma è in me (problema di proiezione).
  • Per differenziarmi, per rispondere ad un giudizio emesso su di me (bisogno di riconoscimento delle mie qualità e dei miei valori).
  • Per incasellare (senso di inadeguatezza).
  • Per non mettere in discussione me stesso, paura di risultare manchevole (bisogno di riconoscimento).
  • Quanto non sono consapevole, quando non sono presente, non sono attenta.
  • In caso di scorrettezza di lavoro, modalità insegnata (bisogno di trasparenza).

Le considerazioni emerse durante il debriefing finale portano tutti i partecipanti a rendersi conto: che il giudizio nasconde delle motivazioni (bisogni) ma che nessun bisogno viene alla fine soddisfatto attraverso l’emissione di giudizi; che emettere giudizi superficialmente e senza le adeguate informazioni a sostegno, può rivelarsi deleterio nell’interpretazione corretta e nella comprensione della situazione; che spesso i giudizi che emettiamo sugli altri sono giudizi che abbiamo emesso precedentemente su noi stessi e che, essendo gli stessi troppo dolorosi, abbiamo inconsapevolmente proiettato sugli altri.

Il debriefing fa emergere ulteriori domande: in che circostanze possiamo emettere giudizi ponderati sull’alter senza lasciarci influenzare dal pre-giudizio?

Da qui l’importanza di distinguere il giudizio dal discernimento.

Perché quando giudichiamo vi è una precisa tendenza ad esercitare dominio e controllo?

Questa domanda apre un nuovo tema di riflessione, ovvero il bisogno delle persone di controllare e dominare gli altri nascerebbe a sua volta da un altro bisogno, quello di ricevere un notevole stimolo psicologico, ovvero impossessarsi dell’energia altrui per nutrire la nostra, perché ciò ci rafforza facendoci sentire meglio. Da qui discende il motivo per cui le relazioni si trasformano in lotte di potere: le persone accumulano tale energia e si battono per averne il controllo. Liberarsi da questa abitudine non è facile perché inizialmente appartiene alla sfera dell’inconscio. Alla base vi sono dei condizionamenti psicologici che ereditiamo dai nostri genitori, i quali ci conducono a vivere continui “drammi del controllo”. L’unica via è l’attuazione di un processo di consapevolezza che comporta il riconoscimento del meccanismo infantile della ricerca dell’attenzione altrui, di cui non ci saremmo ancora liberati. Questo è il nostro dramma del controllo inconscio. Si chiama dramma perché si tratta di una scena familiare, la scena di un film di cui da giovani abbiamo scritto le battute. Quando ripetiamo questa singola scena per impossessarci dell’energia altrui, in pratica blocchiamo il film. Se però iniziamo un lavoro di auto-osservazione, possiamo riconoscere, attraverso i nostri comportamenti agiti, il dramma del controllo che mettiamo in atto, ovvero i condizionamenti operanti. Riconoscerli ci aiuta a mantenere la consapevolezza del nostro modo errato di esercitare il controllo.

A cura di T. Fragomeni e A. Maietti.